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Copertina di Sombrero Twist
Il riso gioca e giocando si ride. Il riso gioca su e con tutto: difformità, assurdo, nonsense, cadute, inciampi, specchi deformanti, mostruoso, caricatura… Il riso gioca sull’impossibilità parlando di intendersi, sull’impossibilità di obbedire al raziocinante rigore logico sottostante al principio causale a cui ogni cosa dovrebbe rispondere con esatta consequenzialità. La parola non rispondendo alla discorsività spazio temporale incorre nell’incongruità dei nessi, in scombinamenti sintattitici, in fanciullesche paratattiche narrazioni, o meglio incessanti divagazioni; incorre nello schiribizzo farfugliante a dispetto della parola normativa e delle sue pretese di comunicazione corretta, esatta, trasparente, quella che sarebbe la giusta guisa sintattico grammaticale. Un alcunché di sconcertante e inatteso appare nella sistematicità organizzata della ratio che impone un racconto omologante nell’unità di intenti, il senso comune, di cui la lingua sarebbe oggetto assoggettabile e letteralisticamente assimilabile, dunque comprensibile allo stesso modo da tutti, all’unanimità. Però qualcosa non va, qualcosa non funziona, l’oscuro irrompe con la scompostezza nella linearità, un equivoco, un malinteso, una battuta e gli umani scoprono che non si intendono affatto. Dunque il riso!
Voltaire osservava che «Gli uomini che ricercano cause metafisiche nel riso non sono gioiosi». Infatti, la metafisica in sé nel suo strologare cause prime non rasserena di certo gli spiriti, tutt’altro, richiede loro estenuanti sforzi, magari li euforizza sulle fortunose sorti del progresso verso la conquista della salvezza sempiterna, ma la gioia no, non le appartiene. Ciononostante, se la metafisica non induce a chi la pratica il riso, è materia assai feconda per provocare il riso in chi ne colga con distacco la trombettante impalcatura. «Voi porterete questa sera, Signore terribile del mio ridere, lo scandalo in luogo più alto. […] … Poiché tali sono, o Signore, le vostre delizie, qui, sulla soglia arida del poema, ove il mio ridere spaventa i pavoni verdi della gloria». (S-J. Perse, Piogge, 1943)
Il riso risalta dall’indomabilità della parola disobbediente al principio della conoscenza, il riso non conosce padroni né schiavi, né alto né basso, non demarca in modo netto la divisione tra bene e male, tende a sovvertire le gerarchie. Ragione questa per cui risulta inviso ai poteri costituiti e a tutti coloro che vi si identificano e lo considerano da moderare nelle sue manifestazioni più schiamazzanti. La semantica razionale su cui si fondano le società civili svolge nella seriosità e nel patimento tutte le sue modulazioni interpretative, e riserva al riso un tempo canonico racchiuso nella trasgressione festiva, non sovrapponibile al calendario feriale, come un tempo lo erano i riti del Carnevale oggi scomparsi.
Ridere è atto originario, sta nella parola – corpo e appartiene a ogni cultura. Ciò che fa ridere, invece varia dai contesti culturali e dalle costumanze. Per chi appartiene alla cultura logico discorsiva razionale, quella in prevalenza sintatticamente organizzata, dunque civilizzata, ciò che fa ridere ha una storia e perfino un’appartenenza a un genere favolistico fantastico letterario.
Sarebbe, dunque, rintracciabile storicamente un’estetica del riso. O meglio, una storia della produzione di ciò che fa ridere, considerando che le sorti del riso nella storia della civiltà hanno subito non di rado il medesimo giudizio ambivalente, ora severamente deprecato ora tollerabile con indulgenza, di altri elementi ad esso associati: l’ozio (otium) e la follia. Nella medievale Regola del Maestro si prescrive «Quanto alle buffonerie, alle parole oziose e che portano al riso, le condanniamo a reclusione perpetua e non permettiamo al discepolo di aprire bocca per tali propositi».
Il riso mostra quanto corpo e parola siano inscindibili e la mente – pensiero non la faccia da padrona sul dominio del corpo. Il tentativo di codificazione del riso, le stereotipie, come pure la condanna o l’elogio del riso (moderato), ricorrenti in ogni epoca corrispondono all’irrompere del corpo, delle viscere, sulla scena, interrompendo la concezione mediata che la rappresentazione metafisica, impersonata dal potere sempre investito di valenze ultraterrene, pretende di imporre per mantenersi tale. Se il potere si regge sul credere alla finalizzazione della vita poggiantesi sulla verità rivelata in cui convergono sapere e senso, il riso spariglia la certezza, mostrando di non crederci affatto, si attiene alla parola nel suo apparire originaria, impertinente ai ruoli, ludica, inservibile, libera, inutilizzabile a scopi mercantili e mostra altresì che anche il potere è un gioco riservato a pochi a scapito dei più, al quale se si cessasse di credere risulterebbe inesistente. L’ipostatica verità rivelata risulterebbe un’invenzione affabulante come altre narrazioni simbolicamente efficaci quanto arbitrarie e nomadiche. E dunque il riso in qualche modo va regolato perché il rituale della rappresentazione morte e rinascita continui.
La buffoneria è lo scacco del potere e suo puntello. È la sua sospensione, la sua mascherata travolta in faunesca crudele beffa, la prova di forza che il potere intrattiene con se stesso nella sua irriducibile contraddizione fra credere e non credere riflessa nello specchio rovesciato del giullare. Uno scongiuro, un apotropaion erano i giullari, i fools, matti di corte, che non abbandonavano mai il seguito del re. Basta poco, basta che la derisione, la beffa, la satira, lo sberleffo, la burla, l’humor nero, la blasfemia, oltrepassi un certo limite, non si mantenga al livello della specularità, dove anche se trasgredita, sovvertita, orgiasticamente confusa nel disordine, la divisione bene male, alto basso, invertiti i ruoli ancora persista, per risorgere in una rinnovata sintesi superiore quale trionfo della luce sulle tenebre, e la pretesa rispettabilità del potere finisce a gambe all’aria. Basta che il giullare nel tumulto della parodia grottesca vada oltre lo specchio, mostrandone la sua irredimibile alterità, per far sì che il rovesciamento sia completo e il sovrano si trovi travolto dalla burla ed essere lui medesimo indistinguibile dal guitto. Il phanes, l’originario, il sacro, apparirebbe a entrambi senza mediazione e neppure intermediari decaduta la necessità di istituire il filtro della gerarchia per accedervi, e questo scompaginerebbe senza appello il potere stesso. Ma essendo il sovrano investito dalla divinità solare della chiara verità con valenze sempre universalistiche, deve fare sì che la parola dominata si riaffermi ancora e ancora e che il punto vuoto si colmi a punto pieno. Ne conseguono le censure e le condanne degli eccessi in ogni tempo e luogo capitate a chi si cimentasse nella satira, nell’umorismo spinto, nella buffoneria, senza distinzione di classe o ceto, aristocratici o plebei che fossero. Il raffinato Petronio e il suo Satyricon ne sono un esempio.
E il buffone? Forse è morto. Viva il buffone.