Serie Estintori/ Mariya Gyukova – a cura di Gabriele Tosi
All rights reserved©Mariya Gyukova
All rights reserved© Gabriele Tosi
Biografia della serie “Estintori”
Gyukova ha iniziato a fotografare estintori dentro istituzioni, sedi temporanee di mostre, gallerie e fiere d’arte nel 2006. L’artista, bulgara di nascita (Stara Zagora, 1982), frequentava allora gli ultimi corsi all’accademia di Bologna; la serie di scatti si protrae ancora oggi tramite una pratica automatica e rigorosa.
Moventi della serie “Estintori”
Dalla conoscenza con Gyukova mi sono costruito la convinzione che il suo essere artista di allora abbia avvertito il dovere di capire le regole e le dinamiche di un mondo per il quale avrebbe dovuto prepararsi, mentre il suo carattere di oggi porti avanti la serie per svolgere consapevolmente un esercizio elastico di distanza e vicinanza, d’inclusione ed esclusione in quello stesso mondo che, lo scrivo per chiarezza, non è quello dell’arte tout court, ma quello degli eventi artistici più pubblici e mondani.
Rimandi sbagliati (la fotografia come testimone)
Questi scatti di oggetti, per la loro freddezza e serialità, ricordano le pratiche della celebrata becher-schuler, penso alle note serie di Bernd e Hilla Becher. Ci sembra di riconoscere quella stessa atmosfera chirurgica di distacco tra autore, macchina e oggetto. La nostra memoria è ingannevole: gli estintori di Gyukova mettono in gioco altri dubbi e diversi cardini. Nella fotografia come testimone, e quello in cui credono i Becher assieme a tanti altri è in fondo questo, fotografare una successione di oggetti che di fatto materializzano la stessa idea, può essere frutto di una particolare fascinazione, un’ossessione relativamente controllata, magari per il design, magari per la regolarità funzionale, finanche a vedervi punti di un discorso tanto vasto da non poter essere letto: il prodotto di un grande autore collettivo e anonimo (la società come artista). Nella fotografia come testimone una serie d’immagini di oggetti omonimi dona a un’ideale matrice un’aurea di unicità altrimenti debole e dispersa. Le fotografie che vogliono essere testimoni hanno spesso un’inquadratura canonica e una cura tecnica, perché la loro forza sta nell’essere credibili, capita infatti che si voglia ingannare lo spettatore suggerendogli l’idea che non esista l’uomo dietro la camera, quando in realtà siamo di fronte a un estremo soggettivismo perché in forma immateriale. Ma se guardiamo alle immagini di Gyukova notiamo che la regolarità dell’inquadratura è assente. La sua nonchalance per la tecnica suggerisce che queste non sono fotografia che si credono testimoni ma fotografie come frammento.
La fotografia come frammento
Sullo schermo della macchina fotografica, sul display di molti computer e a volte stampata, in grandi o piccole dimensioni, su materiali più o meno tecnici. E’ questo, in spiccioli, il percorso di molte immagini fotografiche nella contemporaneità. Oggi le immagini fanno esperienza e sopravvivono mutando, combinandosi, spesso impoverendosi nella definizione e/o abbellendo i contorni, i contrasti e i colori. La processualità a livelli delle immagini fotografiche, i passaggi che a seconda dell’autore o della massa autoriale possono essere più o meno significanti, avvalora la tesi che la fotografia come testimone ha perso la sua forza perché non è più credibile, troppo ibridato e complicato (o potenzialmente complicabile) è il rapporto uomo-macchina-realtà= fotografia. L’oggetto fotografico finisce per non essere diverso dall’oggetto nell’inquadratura. La verità nell’immagine fotografica va quindi cercata in una diversa documentazione, non più frontalmente oggettiva e quindi soggettivista, ma relativizzata al suo acquisito statuto di oggetto. Solo un altro oggetto, con il favore di un soggetto emancipatosi a oggetto, può provare a estrarre verità dagli oggetti in se stessi. Quando siamo incapaci di comunicare con una persona diciamo che è come parlare a un muro. Il punto non è l’assurdità della questione ma quello di porsi il problema di come far “parlare” i muri (o gli estintori), in altre parole di tradurre il loro linguaggio – che non è umano e quindi non è soggetto all’inflazione culturale – attraverso una pratica artistica. La fotografia come frammento è perciò il tentativo di un artista di intraprendere un linguaggio in cui non si affronta ciò che è inquadrato come un elemento definito e discreto di un discorso proprio dell’autore , dove il contenuto è solo uno strumento o una prova a sostegno della tesi del soggetto. La fotografia come frammento tenta di tradurre un qualunque contenuto fisico e oggettuale (non oggettivo) attraverso la pratica, incide su una parte indiscreta e variabile del discorso del reale. I muri non parlano ma si può tradurre il linguaggio dei muri, si può tradurre il linguaggio degli estintori. La fotografia come frammento è una stele di Rosetta sul reale, un frammento di traduzione dell’habitat in cui esseri animati e inanimati sono immersi.
Occhio per occhio, serie per serie
Nella fotografia come frammento la ripetizione non è strumentalizzata dall’autore al fine di sostenere un discorso. Al contrario segna la differenza, e quindi disperde un’eventuale tesi di univocità, laddove si sarebbe pensato di riconoscere omogeneità. Una traduzione letterale non scarta ciò che incontra nella sua versione per il semplice fatto che questa deve avere un’economia di senso e parole. La quantità d’immagini non è una scelta di un fotografo-collezionista che vuole raggiungere la totalità per darne miglior giudizio, ma di un artista che vuole mettere in relazione tanti più frammenti di diverse di realtà per coglierne la segnatura che sarà scaturigine di un linguaggio. Le foto sono molte perché molti sono gli estintori, non potrebbe essere altrimenti e non si concede autocritica alla selezione.
Gli estintori e lo spazio dell’arte
Gli estintori sono quindi oggetti, che al pari degli altri, hanno un loro linguaggio. In ogni spazio pubblico occupato dall’arte, gli estintori sono presenti per obbligo di legge. Materializzano l’esigenza umana di sentirsi prevenuti, di poter controllare l’imprevisto di un incendio; in pratica traspongono l’esigenza di curatori e organizzatori di mostre di dare ai proprietari delle opere, al pubblico e a tutti i presenti, gli standard di sicurezza necessari perché l’assicurazione paghi i danni. Per chi cura una mostra, gli estintori sono di fatto più importanti delle opere perché sono una condizione necessaria. In un mondo dell’arte fatto perlopiù d’installazioni gli estintori sono come i muri. Lo conferma che non ci sembrerebbe strano se un artista proponesse un lavoro che consiste nel togliere tutti gli estintori da un museo (un curatore non potrebbe). La foto di un estintore all’interno di una fiera traduce il nesso che c’è fra uno spazio pubblico qualunque – una scuola, una fabbrica, un ospedale o un centro commerciale – con lo spazio pubblico dell’arte. Ma traduce soprattutto la condizione esistenziale di un oggetto ritenuto insignificante circondato da milioni di oggetti che vorrebbero essere significanti.