Historismo Histerico/ Storia e altre storie – di Gabriella Landini
Tutti i diritti riservati@Gabriella Landini
APOFTEGMI E CIMENTI
Historismo Histerico- Storie e altre storie.
Se lo Storicismo prendesse la piega isterica avrebbe il vantaggio di raccontare eventi come ricordi di copertura e quindi di trovarsi a soffrire di riminiscenze, e per esplosione del sintomo quindi trovarsi a narrare il contingente in un insieme disorientante: l’inordinabile dei sintomi attraversati da equivoci e malintesi, in cui appare l’artista e si eclissa l’artefice. Diverrebbe la storia che si racconta infinite volte, e che produce storie e altre storie ancora, come nelle Mille e una notte: storia altra, differente, impossibile raccontarla in un solo modo, imprevedibile, inedita, inaspettata, qualcosa di singolare, di particolare, di specifico, di unico. Senza questa particolarità e singolarità della storia non può darsi la libertà di fare e di vivere. Ciascuna storia è inimmaginabile. Quando è immaginabile è senza piega, dunque, spiegata, senza sorprese, senza imprevisti, senza ignoto, senza invenzioni.
Storicizzazione. L’evento «oggetto» diviene «fatto».
L’invenzione della nozione di ‘storia’ come processo unitario, comprensivo delle vicende degli uomini in tempi e luoghi diversi, è venuto in essere in epoca successiva al concetto di storiografia, ma della pratica storiografia stessa. Essa è infatti una nozione tipicamente moderna, che si è venuta formando nel corso del Settecento, soprattutto nella sua seconda metà, in concomitanza con la nascita di quella che Voltaire ha per primo designato (nel titolo di un saggio del 1765) come “filosofia della storia”. Interviene l’oggetto storia e un sapere intorno a cosa sia la Storia. Inizia il viaggio metastorico.
L’evento diviene oggetto categorizzabile nella sua descrizione, oggetto museificato, celebrato, glorificato, e prescritto e nella prescrittività , l’oblio è l’obnubilazione degli avvenimenti, attraverso l’estinzione della testimonianza, quell’atto di articolazione incessante della parola che si avventura da storie in altre storie. Le storie altre, quelle definite marginali, la loro multiformità linguistica e culturale divengono epifenomeni della Storia, quella in cui il totalitarismo del destino si fa genealogia lapidaria della singola vita immessa in quella dei tutti, delle masse, del popolo, etc. Tutte categorie che riducono ad unicum universalizzante il destino della gente e di ciascuna singola vita. Impossibile dichiarare, come Il personaggio di Melville, Bartleby lo scrivano, «preferirei di no,» e anche «no, grazie, ripassi fra duecento anni,» impossibile , fra chi crede di esserne escluso e fa di tutto per appartenere alla Storia da protagonista, e coloro che si sentono i detentori del destino altrui impersonando i Dominatori, il Grandi… gli appellativi si sprecano, Alessandro Magno, Guglielmo il Conquistatore, Dogi, Duci, Signori, e via di seguito è una gara alla vincita del seggio a ruolo: vittime, eroi, vincitori, aguzzini, boia, soldati, dittatori, ognuno ha un posto di combattimento, altrimenti è un reietto disertore, un escluso dal grande gioco del potere, quindi: meglio miserabile afflitto, che niente. Per effetto di questa concezione dominatrice necessitano le teorie riparatrici delle smemoratezze, delle ferite, le teorie del perdono collettivo e individuale. Ma tutto ciò sta a dimostrare che l’esemplificazione storica altro non è che mistificazione glorificata della violenza sistemica, suggerimento in volume dottrinari alla ripetizione migliorativa e salvifica delle azioni precedentemente commesse: chi ha perduto poi dovrà rifarsi per sentirsi degno di stare a questo mondo. I sussidiari di scuola sono dei formidabili ricettari, se solo si riuscisse a scordare il sangue dei massacri potrebbero anche risultare grottesche elencazioni da sbeffeggiare. Ma non lo sono, non lo sono affatto! Del resto impariamo in modo erudito le Guerre Puniche per non ricordarle mai. Ma attraverso di esse restiamo mobilitati, abituati alla violenza, alla letteratura della violenza, pronti a obbedire quando ci sarà impartito l’ordine e sarà individuato il nemico del momento. E la storicizzazione è talmente efficace che leggiamo in essa le norme senza pensare–noi eruditi ermeneuti– sappiamo molto, senza capire nulla. Ve lo immaginate uno studente di liceo che si rifiuta di ripetere, anche in modo moralistico, con criticismo annesso, le vicende dei dittatori sanguinari dell’ultimo millennio, per radicale dissenso, affermando che la ripetizione a pappagallo della lezione comunque insinuerebbe una implicita, anche involontaria adesione al passato proiettato nel proprio futuro, anche solo nel declamare quelle gesta, con stantia litanica condanna? Lo studente sarebbe bocciato per non avere imparato come ci si prepara adeguatamente alla vendetta.
Ogni due mesi abbiamo nemici tremendi sempre diversi e ci dimentichiamo di quelli svaniti nel nulla pochi mesi prima. Ma dato che la fabbrica dei nemici è inesorabilmente attiva costantemente in ogni angolo del pianeta , prima o poi scatta la provocazione che permette alla maschera del potere di incarnare la morte in guisa di idea-ideologia per l’azione. La fine del tempo e la finalizzazione del tempo ha tutto un programma leggendario che religiosamente e cerimonialmente eseguiamo. Per Hegel alla fine della storia la memoria eterna che coordina progresso ed evoluzione coinciderà nella perfezione con la ragione del passato per via di illuminazione. Nietzsche dirà che la storia è una teologia.
Immanente, trascendente, la verità non alla portata di nessuna storia, con la maiuscola o la minuscola.
Basterebbe talvolta leggere l’elenco dei morti in uno dei tanti monumenti al Milite Ignoto per non avere più l’avventatezza di scrivere un libro celebrativo delle vincite dei Dominatori del momento. Invece no, eccoti un aggiornamento all’anno, con una conta ritenuta ineluttabile dei punti strappati all’avversario di turno con lettere di sangue. Non sia mai, che ci siamo perduti i guinness di una guerra e la conta dei morti di qualche massacro attribuibile alla connaturata violenza naturale dell’uomo desunta dalla sua similitudine con gli animali. Sì, certo, la violenza c’è, come c’è la morte, ma non è organizzata, è accidente dell’esistere a questa vita, non è compiacimento, vittoria, trionfo, soprattutto non è eretta a sistema, non è la guerra né per gli animali, né per i selvaggi. Diversamente è importante per l’uomo chiamato “civilizzato” celebrare le vittime, i sacrificati in nome del tutto, del totalitario concetto di appartenenza alla Storia, o meglio, quella che noi chiamiamo La Storia-grafia che dal Settecento in poi è il sussidiatico romanzo popolare che mitizza la spinta totalitaria insita in ogni potere, descrivendone le fortunate e rare aperture di liberalismo e le derive più aberranti. Ma anche in questi casi la condanna diviene pena, fissità della definizione storica, non elaborazione affinché la condanna non sia sterile imposizione a cui resistere e da ripetere non appena sia trascorsa la generazione che ha subito di volta in volta gli orrori.
Lo Storicizzazione in sé è una concezione totalitaria perché pretende di universalizzare la parola- narrante in un tempo- spazio rappresentabile, sia poi questo lineare, circolare, in eterno ritorno, o no, in ricorso e ricorsi, a spirale, vettoriale, frammentato, frattale, spastico, sincopato, di rottura o di continuum storico, ciò che resta è la usurpante prepotenza di una definizione metafisica temporale della vita e del suo svolgersi. La storicizzazione ha la pretesa di sostituirsi a chi le storie le fa, a chi le inventa, ne è attore e le narra, le vive, per ricategorizzarle, e questo vale anche per molta parte dell’arte che si spaccia per astorica e atemporale, ma si presta ad uso dei dominatori e si adegua a seconda dei vincitori e dei vinti, degli amici e di nemici, dei complotti e dei tradimenti, delle alleanze cortigiane, dei trombetti, dei golpe rivoluzionari o no che siano sfilando stromabazzante nelle parate.
Il tempo è irrappresentabile ed è per questo che ogni pretesa di storicizzazione è destinata a un penoso fallimento. Le teorie si susseguono, decadono, si rinnovano, altre resuscitano, altre come la letteratura fantascientifica precorrono, ma precorrono a partire dal passato. Mantengono lo status quo ammantandolo di nuovi orpelli. Più precisamente innovano l’aspetto tecnologico, perfezionano la grande macchina lasciando inalterato il dispositivo di potere di fondo. La fantascienza precorre mete, tecniche, invenzioni, viaggi, opportunità, lasciando inalterato il dispositivo di base del dominio. E come in ogni trasformazione che nulla cambia, rafforzano l’esistente e lo affinano nella sua aggressività. Basti pensare al mirabile progresso tecnologico direttamente proporzionale alla devastazione dell’ambiente e gli animali intervenuto con l’avvento dell’industrializzazione dilagante. Per quanto riguarda le culture altre, nemmeno citarle, sono completamente estinte e racchiuse in riserve simili a zoo, che noi chiamiamo “rispetto delle culture indigene”. Ma se fosse stata ammessa la differenza, la Storia come organizzazione della civiltà non si sarebbe neppure potuta scrivere, avremmo continuato a narrare tante storie diverse fra loro senza possibilità di decretarne una egemone. Storie, racconti, mitemi, tra loro, incompatibili avrebbero continuato ad esistere, non sarebbero stati né da estinguere, né da proteggere e salvare.
La Storia sta sempre al posto di ciò che ciascuno potrebbe dirne, si sostituisce alla testimonianza e all’ascolto. Il fallimento della Storia è non riuscire a cogliere l’umanità oltre la rappresentazione politica e conseguente strumentalizzazione.
Che la storia sia vera o falsa riguarda un pregiudizio, secondo il quale in essa è sotteso un segreto da rivelare, da scoprire, da celare, da occultare e che possa da una sua interiorità dare forma a un sapere. La storia non è mai raccontata, è sempre nuovamente da raccontare, mai riassumibile al detto, al fatto, e allo scritto. Una storia vera non è metastorica, è una storia che attraversa le figure della finzione, perché la parola non può avere la pretesa di dire la verità -tutta senza precipitare nella menzogna insita nel linguaggio.
Che ci sia la storia antica, moderna, contemporanea, è la rappresentazione inesistente del tempo classificato in storico. I libri di storia sono mitologizzazioni leggendarie dettate dal vincitore e in nome del vincitore.
La storia antica era articolata in modo più libero rispetto alle nozioni di tempo, le storie di Erodoto riguardavano avvenimenti e azioni umane, di avvenimenti collegati fra loro da nessi temporali e contestualizzati, ma stilisticamente più vicini alla narrazione che non a ciò che noi definiamo ‘storia’. La narrazione storica antica conosce tà genómena, le res gestae, ne circoscrive le relazioni e i legami, manifesta cause immediate o remote e questo vale anche per Polibio che volendo offrire un quadro coerente delle vicende dell’ascesa politica dei romani ha concepito un aggregato di avvenimenti. La nascita della concezione della storia come noi la conosciamo oggi presuppone l’inserimento delle narrazioni storiche in un nesso causale rigoroso che ne dia un quadro coerente non contraddittorio, anche se multiforme. La res gestae si svincola dalla historia, avviene un’assolutizzazione. La Geschichte, viene concepita come indipendente dalla Historie. Non più solo ricerca la ‘storia’ diventa così un oggetto a sé stante, una realtà sui generis che dev’essere colta nella sua unità e nella sua articolazione e in questo passaggio si universalizza agendo in concomitanza della scoperta del Nuovo Mondo e della colonizzazione.
Le storie che rendono coeso un gruppo sono perlopiù narrazioni che formano la cultura di un gruppo e sono collettivamente narrate, come un tessuto intrecciato a più mani, mentre la Storia-storiografica si impone come organizzazione degli eventi in una metafisica della verità e dei fatti che la comprovano, e insegnata come sapere paradigmatico della vicenda umana. La storia espropria l’esperienza dell’invenzione narrativa, imponendo se stessa in quanto riproposizione della vicenda del potere come unico modulo di interpretazione, catalogazione, preminenza, degli eventi reclusi nella definizione dei “fatti veramente accaduti”, attraverso la forzosa identificazione della gente in personaggi chiamati dominatori. Hai cinque anni quando iniziano a insegnarti la fascinosa storia dei Faraoni, che poi vedrai mummificati al museo in gita scolastica. Hai cinque anni quando iniziano a insegnarti a delegare i tuoi pensieri al grande Albo della Conoscenza e del Sapere, affinché tu sia tutt’uno con il Grande Personaggio, che è Tutti, anche te e il – tuo in- essere- popolo, massa, folla, situandoti nell’indistinto denominato Ognuno e Tutti; il sacrificabile nell’indifferenza categorica per il Grande Personaggio. Il lui chi? il Grande Personaggio è la maschera dell’ipostasi del potere, del dominio dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sul vivente nella tremenda credenza apotropaica di potere in tale modo ottenere e raggiungere l’immortalità. È la maschera della morte che minaccia e costringe alla protezione, che illude con lo scongiuro di morte in una promessa di salvezza e imperitura vita nell’Aldilà.
A cosa crede colui che si affida all’idea della Storia, alla sua filosofia, alla sua organizzazione , alla sua sistemica obbedienza a un qualche principio causale, sia esso teologico, ontologico , epistemologico, fenomenologico, ecologico, patologico, cosmologico, fantascientificologico?
Crede che ci sia la predestinazione genealogica, che il passato sia identico al futuro, che il presente, l’istante non ci sia, che non ci sia l’intervallo, il punto vuoto, l’ignoto, l’ignoranza delle cause e dei fini, del senso e del significato e che il tempo storicamente dato apolitticamente si ripeta nell’azzeramento, come risultato delle guerre, più o meno manifeste, e imperiture a cui assistiamo. Nell’azzeramento la rivelazione palingenetica, per ricominciare da capo. Tolto lo zero, l’intervallo, l’azzeramento come sua “impossibile” rappresentazione. Colui che si aggrappa alla storia come documento e prova di verità per farne la replica fin dentro le mura di casa, identificandosi di volta in volta con Napoleone o lo Zar di tutte le Russie paradossalmente accetta la Storia per non farla. In un’intervista degli anni del Vietnam, Oriana Fallaci dichiarava di essere stata la prima giornalista donna inviata di guerra perché non credeva a una riga di quello che era scritto nei libri di storia.
Dunque, diversamente leggere qualsiasi evento implica tenerne nella parola la responsabilità di ciò che avviene, ed è questo il punto in cui le storie, le testimonianze, i narrati sfociano nella memoria.
Significa che mai in nessun modo potrò mai dire con indifferenza: Hitler, o Pol Pot non mi riguardano perché io non c’ero e non c’entro. Anche se io non c’ero non posso delegare la responsabilità di ciò che questi eventi mi danno a pensare e ragionare con o senza libri di storia e storiografi. Se ciascuno di noi non delega, razzismi, pregiudizi, slogan conformisti non avranno nessuna efficacia, e allora c’è speranza di riuscire a raccontare storie e permetterne la piega e le infinite pieghe.