Sorino che vive. Il popolo degli Yanomani – di Ivan Dall’Ara
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Si ringrazia Roberta Barbaro per la collaborazione alla stesura dell’articolo.
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La storia di Sorino restituisce un ignoto.
È una storia oltremisura, è sottratta alla misura, e, come tale, non è ripetibile, non è dimostrabile, non rientra in alcun paradigma conosciuto di causa-effetto.
Il corpo di Sorino non è coerente alla somma delle sue singole parti anatomiche, quelle che mancano non spiegano ciò che accade, e quel che accade non procede secondo ciò che è comunemente prescritto.
La TAC del cranio di Sorino evidenzia la perdita di una estesa zona della massa anteriore encefalica: “totale ablazione del lobo temporale sinistro e parte di quello latero parietale sinistro”, centri neurologici di attività cerebrali fondamentali, come quelle legate al linguaggio, ai movimenti e alla memoria.
Sorino non dovrebbe essere nemmeno lontanamente l’uomo che è.
Un uomo vivo, innanzi tutto, e ancor più inspiegabilmente senza alcun postumo invalidante dopo la tremenda ferita con cui, ventitré anni fa, un giaguaro della foresta gli dilaniò il cranio e parte del cervello.
Sorino appartiene ad una piccola comunità di circa trecento yanomani, uno degli ultimi popoli nativi sopravvissuto alla civilizzazione in un punto volutamente imprecisato della foresta amazzonica: gli yanomani temono i cacciatori di souvenir quasi quanto le violente devastazioni dei “garimpeiros”, i cercatori d’oro, che avvelenano i fiumi e portano terribili malattie prima sconosciute agli indigeni. Una sola fotografia è questione seria per la cultura yanomani: quando qualcuno di loro muore deve «poter salire leggero», le sue poche cose vanno bruciate e il suo nome non può più essere pronunciato; niente di ciò che è morto può appesantire la vita, e i vivi non possono trattenere i morti, per questo gli yanomani non vogliono mai essere fotografati, quell’immagine fissa non si accorda al presente della vita che scorre d’intorno.
I missionari cristiani dell’Istituto della Consolata sono presenti in questi luoghi dai primi anni del ‘900. L’iniziale azione di evangelizzazione pare presto aver ceduto il passo ad una presenza discreta, rispettosa delle usanze e della cultura millenaria di questo popolo. Il contatto con gli indigeni sembra aver a poco a poco spinto questi sacerdoti-viaggiatori a girarsi indietro, mirando gli estremi del loro viaggio da tutt’altra prospettiva: più che portare i luoghi da cui sono partiti, pensano a difendere quelli che hanno trovato, ed ora le piccole missioni, che vivono accanto ai villaggi degli yanomani, costituiscono spesso l’ultimo avamposto contro quello che i missionari più anziani definiscono come uno dei più grandi stermini della storia.
Avanti a Padre Corrado e a Sorino c’è Roberta Barbaro, un medico incaricato, insieme ad altri, di esprimere una valutazione scientifica – tramite la raccolta di anamnesi, referti, testimonianze e quant’altro – utile ad istruire il “caso” di Sorino. Dopo ventitré anni, la guarigione di questo indio ha assunto aspetti talmente inspiegabili da risultare in “odore di miracolo”, al punto che potrebbe aprirsi il processo canonico per la santificazione del Beato Allamano, il fondatore dei Missionari della Consolata.
Quando quel che accade non può essere ridotto al canone razionale, si invoca l’intervento divino: l’ultraterreno è l’unità di misura di un ignoto al quale – sulla terra – non si vuole riconoscere cittadinanza. Ma questa è un’altra storia.
La storia di Sorino è una storia che vive nella foresta, e qui, avanti alla testimonianza di chi si muove e respira facendo parte dell’ambiente circostante, lo comprendi chiaramente: la foresta è irriducibile all’unità convenzionale, la foresta è viva, si smarca costantemente ad ogni misurazione, non la si può sezionare come su un freddo tavolo da obitorio, la foresta – per chi vive come Sorino – è un assoluto che esiste, perché è senza confini. Sorino si affaccia allo sconosciuto che vi abita senza alcuna pretesa di “oggettivazione”, ci vive immerso, senza mediazioni, la sua lingua, affascinante e misteriosa, sembra nutrirsi degli stessi rumori della foresta, al punto che quando Sorino racconta a padre Corrado, che traduce in portoghese, pare ancora riecheggiare il suono, maestoso e tremendo, della fiera che gli ghermì la testa.
La giornata di Sorino, quel giorno di ventitré anni fa, scorre nel ritmo consueto degli yanomani: vivono in ristrette comunità nella foresta, le famiglie, l’una accanto all’altra, si dispongono in un’unica grande capanna di forma circolare, una specie di grande ciambella, vuota nel centro, dove, come in una piccola piazza, si svolgono le attività e i riti comunitari. Non hanno senso di proprietà gli yanomani, si servono di pochissimi oggetti, perlopiù a disposizione di tutti, quelli strettamente personali bruciati alla dipartita del proprietario. Son ben tollerati matrimoni con più mogli e donne che hanno figli da più uomini, sebbene, per la maggior parte, gli yanomani siano monogami. Le donne si occupano della casa e dei bambini, raccolgono frutti spontanei e trattano le piante officinali; gli uomini si dedicano alla caccia e alla pesca.
Torna da una battuta di caccia Sorino, è solo, con il tapiro ancora sanguinante ucciso con le frecce imbevute di curaro. Probabilmente attratto dall’odore della selvaggina, un giaguaro balza d’improvviso dal folto, un dolore fulmineo tra il ruggito felino e il crepitare terrificante delle ossa del cranio che si spezzano, Sorino sente le zanne della belva penetrargli la testa.
«Tutto si fa buio», ma lo yanomano sull’accaduto fa una prima annotazione precisa: «voglio assolutamente vivere» – si è detto – e «per non morire non devo in nessun modo cadere».
Riesce a rimanere in piedi Sorino, la vista torna per qualche istante a bucare l’oscurità, vede il giaguaro avanti a sé, prova a tendere l’arco per colpirlo, «ma la punta della freccia è spezzata». Rapinata la preda, però, il felino desiste dall’infierire, e scompare nuovamente nella foresta.
Il primo dato sconcertante è costituito dal fatto che Sorino riesce, in quelle condizioni, a raggiungere con le proprie gambe la sua maloca.
Felicita Muthoni Nyaga, una giovane suora della missione dislocata a poca distanza, viene sollecitata da un giovane yanomani che chiede un fucile dei bianchi per uccidere il giaguaro che ha aggredito il cognato.
Quando raggiunge il ferito, Felicita rimane impietrita: «Sorino è coperto di sangue, il giaguaro ha sollevato dalla testa quasi l’intero cuoio capelluto, rompendo il cranio e lasciando la massa cerebrale esposta con frammenti del cervello lacerati». Si fa forza Felicita e con l’aiuto delle donne lava la ferita, cerca di riposizionare il cuoio capelluto al suo posto e, non avendo mezzi per tamponare l’emorragia, avvolge la testa di Sorino nella propria camicetta prima di portarlo nell’infermeria della missione. Di lì è possibile chiamare un taxi-aereo nella riserva yanomani per tentare di trasportare Sorino in un ospedale nella città più vicina.
Nel frattempo, però, la voce si sparge nella foresta e un gruppo di circa duecento yanomani si riunisce avanti la missione. Ci sono anche gli anziani, membri della comunità che godono di una certa autorevolezza, e tra questi i guaritori, gli uomini che sanno parlare con il mondo degli spiriti, quelli il cui nome noi traduciamo con la parola “sciamano”.
Subito viene iniziata la terapia yanomani, e tempo dopo, nel referto dell’ospedale in cui viene trasportato, si leggerà che il cranio divelto di Sorino appariva «sapientemente chiuso con foglie e terra», tanto da renderne necessaria la tolettatura attraverso un intervento chirurgico. Qualche biologo, che ha osservato le usanze di questo popolo, azzarda allora ipotesi legate alle straordinarie conoscenze botaniche degli yanomani.
Ma è ancora Sorino a fornirci la seconda annotazione fondamentale della sua storia: «sono vivo perché i guaritori hanno strappato l’immagine dei denti del giaguaro conficcata nella mia testa». Per guarire, per vivere, sembra volerci dire, occorre dimenticare tutto ciò che non è presente nell’attimo in cui sei.
Non sappiamo se i ricordi di Sorino siano il frutto di una memoria cosciente, di un sogno o di un racconto postumo, quando arriverà in ospedale – dopo circa dodici ore da quel gravissimo incidente – è in coma, compromesso da una forte emorragia e dalla importante perdita di sostanza cerebrale, le annotazioni mediche parlano di una situazione clinica tale per cui Sorino non avrebbe nemmeno dovuto superare la notte: «paziente in coma, in shock ipovolemico, con una vasta ferita al cranio (perdita di cute, osso, dura madre, estesa lesione fronto-temporo-parietale con perdita di sostanza cerebrale)…sottoposto a intervento chirurgico di toilette della ferita, emostasi dei vasi sanguinanti, exeresi del tessuto necrotico, applicazione di Surgicel®, innesto di dura madre. A causa della perdita significativa di tessuto e dell’elevato rischio di infezione, la ferita viene lasciata aperta.»
Quello che è certo, invece, è il fatto che ricoverare Sorino in ospedale sia stata una decisione niente affatto pacifica. Suor Felicita è poco più che ventenne, è alla sua prima esperienza in missione, non conosce la lingua, né comprende le usanze degli yanomani, ma si rende presto conto della loro avversione non appena questi intuiscono che la suora sta organizzando l’uscita di Sorino dalla foresta. Le donne indigene devono intervenire per salvarla, le fanno scudo avanti gli uomini che puntano le loro frecce per colpirla. Una volta che Sorino viene caricato sul taxi-aereo, gli archi vengono riposti avanti alla missione: «Se Sorino muore fuori dalla foresta» – dicono alla suora – «noi torneremo ad ucciderti con questi». È scossa Felicita, trema di febbre e di paura, è tormentata dal dubbio, prega il suo Dio e l’intercessione del Beato Allamano.
Contro ogni evidenza, Sorino è ancora vivo nel reparto di terapia intensiva, soffre terribilmente. Si può alimentare solo con una sonda e, sebbene appaia incosciente, gli vengono legate le mani perché cerca costantemente di strapparla. L’odore dell’infezione sulla ferita aperta è talmente nauseante da risultare insopportabile, occorre una maschera per non sentirsi mancare quando si procede alle medicazioni. Il dolore deve essere lancinante, ma Sorino non emette un lamento: «vedere un indio così sofferente, prima abituato alla libertà della selva, legato ad un letto in quello stato, procura una pena straziante» dice Maria da Silva Ferriera, un’altra suora che lo assiste in ospedale. Come Felicita, prega per giorni, e con altre consorelle pone un’immagine dell’Allamano sotto il cuscino dello yanomano.
Pare chiuso in un silenzio inconsapevole Sorino, come chi è lontano, come un animale ferito, nel buio intimo della sua tana. Semmai dovesse sopravvivere, le estese lesioni cerebrali avranno irrimediabilmente compromesso – assicurano i medici – fondamentali facoltà ideative, di linguaggio e motorie dell’indio.
La signora Andina, la mamma di Sorino, per la prima volta nella sua vita, esce dalla foresta.
Accompagnata in ospedale da suor Rosa Áurea Longo, abbraccia il figlio, mette una presa di tabacco nella bocca dello yanomano, gli parla all’orecchio nella lingua materna. A quel suono, che sa di foresta, quasi fosse uno strumento sul quale si accordano le sue energie vitali, Sorino, dopo venti giorni dal suo ricovero, apre gli occhi, appare «orientato nel tempo e nello spazio, pupille isocoriche, assenza di deficit motori e/o sensitivi». Non solo riconosce la madre, ma le parla – come si legge nei documenti medici – «in maniera fluente».
I neurologi ne sono sbalorditi: osservano la TAC dell’encefalo evidenziare le zone mancanti del cervello, incompatibili con l’inspiegabile recupero. Sorino, alle misure degli scienziati, oppone imponderabili valutazioni “qualitative”: «i guaritori avevano sentito che la mia energia vitale era forte, mi hanno detto che sarei sopravvissuto, il loro spirito mi ha seguito anche fuori dalla foresta».
Successivamente al suo risveglio viene eseguito un innesto di cute, «permanendo craniolacunia», il lembo cutaneo affossato in corrispondenza della perdita di parte delle ossa craniche. Trasferito presso una casa di cura per la riabilitazione, dopo tre-quattro mesi dall’incidente – «rifiutandosi di assumere la terapia anticomiziale senza mai manifestare crisi epilettiche, né altri sintomi neurologici» – Sorino si autodimette, e, dopo cinque giorni e quattro notti di cammino, raggiunge a piedi la propria maloca.
Una volta nella foresta, Sorino torna alla vita di sempre; sulla molle conca, che il cuoio capelluto forma in corrispondenza delle parti mancanti del cranio, ha posto un pezzo di una noce di cocco fermato sotto il cappellino: verrà sostituito tre anni più tardi con l’attuale placca di titanio eseguita in «cranioplastica con chiusura della fistola liquorale».
Ed è ancora qui, Sorino, nella sua foresta.
È un uomo dalla presunta età di settant’anni che paiono venti di meno, è davanti a Roberta e ad altri medici che cercano accanitamente un reliquato neurologico coerente con quelle lesioni cerebrali. Paiono trovarne un labile segno nell’«atteggiamento in estensione del IV dito mano dx»; ma poi il paziente «riferisce ferita da arma da taglio». E allora c’è chi torna a chiedere a Sorino di toccarsi il naso, chi di seguire con lo sguardo il movimento del dito dell’esaminatore.
«Il paziente presenta completa ripresa funzionale senza postumi alcuni, duratura nel tempo, che, alla luce delle estese lesioni cerebrali riportate in seguito al trauma con perdita di sostanza, risulta scientificamente inspiegabile. Dott.ssa Roberta Barbaro.»
Si gira divertito verso la moglie Sorino, uno sguardo d’intesa e una risata, luminosa come lo scherzo di un fanciullo, inafferrabile come la sua storia.
Avanti all’incredibile, cosa puoi continuare a credere?
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