L’avventura – di Gabriella Landini

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All rights reserved© Gabriella Landini

Pinocchio, Moby Dick, Ulisse, Lord Jim, Zanna Bianca, Orlando Furioso o Innamorato, sono fra i tanti e innumerabili protagonisti del fantastico mondo letterario che evoca l’avventura. Altrettante testimonianze scritte da esploratori, sportivi, alpinisti, campioni di vela e aviatori ci raccontano le vicende di fauste imprese memorabili. Da alcuni decenni siamo pervasi da una pubblicistica in cui l’avventura viene enfatizzata, documentata, ricercata, venduta. Prodotti televisivi come i reality, dedicano all’avventura spiaggiamenti umani su isole, o gare di sopravvivenza in giungle e altri luoghi impervi. Si va, sempre in nome dell’avventura, sulla gelida cima dell’Everest in elicottero o nel deserto con veicoli ipertecnologici, si va anche nei parchi nazionali a fare visita agli animali, agli alberi e ad altri arbusti. Nonostante lo strombazzante cicaleccio sul turismo-avventura, e la tanta attenzione posta su esperienze definite “estreme” perché finalizzate al pericolo, l’avventura resta rara, anzi, sembra essere una condizione via via sempre più evanescente.

Il termine antico era ventura, è così che l’avventura la si ritrova spesso citata nei testi classici. La sua etimologia ci dice che proviene dal latino adventura «ciò che accadrà» neutro pl. del part. fut. di advenire «giungere» e anche neutro pl. dell’inf. fut. adventura esse «stare per giungere, accadere». Il termine nei tanti risvolti semantici indica: caso inaspettato, avvenimento singolare e straordinario; vicenda amorosa, di solito frivola e passeggera; impresa rischiosa ma attraente e piena di fascino per ciò che vi è in essa d’ignoto o d’inaspettato il cui esito è incerto o casuale; fortuna, buona ventura: Indi verso i duo gioveni s’avventa Dei quali un, più che senno, ebbe avventura (Ariosto).

Avventura

Un’avventura, dunque, definisce un’esperienza entusiasmante, insolita che esula dalla vita ordinaria, anche qualora si trattasse unicamente di una scorribanda erotica e amorosa. Fra la vita ordinaria e la vita straordinaria vi sarebbe uno iato che le separa. La vita ordinaria indicherebbe una vita senza spirito d’avventura, condotta nella prevedibilità degli eventi e nella loro ripetizione. Una vita obbediente a un sistema razionale di misura e calcolo identificabile con un modello riproducibile del quale si possono fare previsioni, con tante variazioni sul tema. Un modello che rimane, comunque, monoliticamente autoreferenziale. Lo spirito domestico non desidera imprevisti, né opportunità eccezionali che considera una minaccia alla propria stabilità. Sia che l’occasione si presenti molto piacevole o inquietante. Il tempo ordinario è orologiaio e si svolge circolarmente disposto sulla linearità progressiva, muovendosi fra nascita, morte e rinascita, alternando il feriale al festivo. Anche la guerra è una delle manifestazioni del tempo festivo, soprattutto se vittoriosa. (I signori della guerra rappresentano il potere e divengono padroni della vita e della morte. In questo caso la morte esce dall’ambito mitico e si introduce nel tempo ordinario divenendo una rottura o una frattura, per poi ricomporsi nella conciliazione per quantificare le perdite e le conquiste). Le feste in tutti i loro aspetti, si pensi al rito antico del carnevale, sanciscono l’andamento del calendario feriale.

L’avventura, invece, introduce un tempo straordinario, un altro tempo del vivere, completamente alieno dalla convenzione e poco incline ad essere rettilineo, circolare, frattale, resta semplicemente altro, incodificabile.

A questo fa riferimento Dante quando all’inizio della Divina Commedia dichiara: «ché la retta via era smarrita […] Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai, 
tant’ era pien di sonno a quel punto
 che la verace via abbandonai». Ed è quello a cui non di rado noi ci riferiamo quando parliamo di avventura, un viaggio ignoto verso Altro di cui non abbiamo nessuna cognizione al momento della partenza, anzi, nel caso di Dante si tratta di un oblio che lo rende ignaro del momento inaugurale, tranne la sorpresa, l’inquietudine, lo sgomento di trovarsi a essere partito, di intraprendere il cammino.

L’avventura è un viaggio che inaugura una itineranza che si attiene al contingente. Solitamente, però, noi intendiamo per avventura qualcosa di diverso, o meglio, nella nostra cultura l’avventura è frequentemente intesa come un simbolico viaggio iniziatico che introduce a un al di là (rivelazione compresa) atto a confermare un al di qua, ovvero il posto da occupare nel nostro mondo-società.

Dunque, l’avventura così concepita, si presenta certamente sotto forma di viaggio che, però, anziché inaugurare una itineranza, consacra il ritorno con i suoi personaggi-eroi semidivinizzati. Anziché sporgersi verso un avvenire infinito, fa ritorno al passato, o meglio: torce il futuro a conferma del passato. Infatti, dell’avventura nella fattispecie del viaggio iniziatico dell’eroe sono colmi i nostri libri di storia con resoconti di esploratori di ogni sorta, conquistadores, corsari, pirati, campioni e altri ancora. È il mitologema imperante, riprodotto anche nei leggendari favolistici e romanzeschi, nel quale la cultura della civilizzazione in nome del progresso e della salvezza si espande. Fortunatamente, la cultura ha molti aspetti e non è mai totalizzante, permangono in essa elementi di alterità irriducibile. Sull’irriducibile, l’avventura, tre la sua forza potente, lontano dallo schema diffuso del viaggio dell’eroe. In un’avventura e nel suo racconto conta, più del protagonista, l’avventura stessa, l’accadere, l’onda e la piega di quel che avviene e diviene. È nell’andamento del viaggio che tutti coloro che la vivono incontrano l’alterità rispetto a quanto già conoscono. Invece, nel nostro modo convenzionale di intenderla, centrali sono i personaggi, di solito umani o animali umanizzati e le loro doti. Il protagonista domina la vicenda e l’andamento del viaggio. «Quel che accadrà» in un’avventura autentica si distingue nettamente da ciò «che voglio che accada» o «che deve accadere» tipico delle gesta eroiche nelle quali la meta è il senso del viaggio. Va precisato che la Commedia dantesca è da molti letta come una sorta di iniziazione, quando, invece, per Dante il viaggio allegorico prende a pretesto la traccia catanabatica e la trascende, non senza note buffonesche e ironiche, per divenire de facto un’impresa di suprema poesia e invenzione della lingua italiana moderna. Inconciliabile la poesia con la letteralizzazione. Protagonista in Dante è la lingua.

Il viaggio dell’eroe

Lo schema del viaggio dell’eroe obbedisce a una struttura narrativa che accomuna mitologia e religioni allo stesso tempo (J. Campbell, L’eroe dai mille volti, 1949; Le maschere di Dio, 1959); e si presenta sempre nello stesso modo: la nascita dell’eroe/protagonista è caratterizzata da eventi misteriosi e speciali. Durante l’infanzia già si presentano tracce di difficoltà nella relazione con la famiglia o con altri, non di rado è stato abbandonato alla propria sorte o mostra tracce di stoltaggine. A un certo punto della vita, il nostro divo si ritira dalla società per un periodo di apprendistato, supportato da una o più guide speciali o soprannaturali, al fine di acquisire competenze nuove. E, infine, l’eroe/protagonista rientra nella società forte delle conoscenze acquisite e svolge il suo compito grazie a strumenti di cui è l’unico a potere disporre.

I colpi tetragoni della ventura iniziano con la separazione e la partenza verso un destino che nella vocazione iniziale comincia a intravedersi. Ci sono i primi segnali inascoltati, gli avvertimenti, la fuga, il soccorso inatteso e offerto di una guida a colui che ha iniziato il viaggio. Poi, il varco della prima soglia, il passaggio nel regno della notte, la follia, la tenebra, l’abisso. La discesa verso il mondo ctonio, dove affondano le nostre antiche paure, in primis quella della morte, dell’oscuro, del selvatico, di ciò che è fuori dalla regolarità conosciuta, dal recinto sistemico e organizzato dell’universo civilizzato.

Ogni discesa agli inferi nasce da una situazione spirituale ambivalente: per un verso, un timore congenito, una ritrosia evidente a fronte dei rischi gravissimi che incombono sull’impresa, infatti, molti si alleano per sconsigliare quel viaggio; per l’altro verso il dettato di una maturazione ormai raggiunta, il sapere di una decisione non più procrastinabile impongono di intraprendere quel cammino senza indugi. Un motivo ricorrente di ulteriore terrore è l’incontro con le ombre e il romitaggio. La “purificazione” e la “rigenerazione” dovranno avere luogo nella solitudine. L’impresa sarà necessaria per rivelare a se stessi il proprio mistero nel corso di una “peregrinazione impedita” compiuta per assicurarsi la salvezza. Lontano dal mondo, il viandante si troverà preso in una progressione che potrebbe essere considerata una attività di “cercatore del sé” (ogni protagonista di imprese pericolose dichiara di avere trovato se stesso) del “perché”, di “Dio”, più precisamente la causa sui prima e ultima, molto simile a quella volontà di separare se stesso dal mondo che anima l’eremita o l’anacoreta.

Nella sua peregrinazione simboleggiata da un procedere nel labirinto, il protagonista incontra ostacoli e impedimenti, affronta prove durissime di ogni genere nella quali sperimenta ogni stato emotivo estremo: paura, coraggio, astuzia, dolore fisico, ferite, guarigioni, stordimento, estenuazione, terrore, orrore, sgomento, panico, beatitudine, allegria, gioia, erotismo. Al solitario pellegrino sarà dato il conforto di guide che lo aiuteranno nei momenti di maggiore disagio. Il cammino procede dalla catabasi all’anabasi inesorabilmente. La catabasi riconduce al simbolismo della caverna, quale sede infera del mondo dei defunti. È questo il passaggio del viaggio che introduce la morte-rinascita. Dal «mondo di là» si esce solo «resuscitati». Chi non torna è rimasto per cattiva ventura impigliato nell’Averno o simili. Naturalmente i fallimenti sono solo temporanei, perché la ventura è tale se la si racconta da vittoriosi. Diversamente, l’esito nefasto consacra l’elettività di chi tenta imprese sconosciute e scoraggia i più dal farsi venire certi grilli per la testa. Nella vita chiamata ordinaria, la sventura è quell’elemento penoso che non manca mai anche in un placido vivere in rettitudine, magari con noia, quella sorte avversa che interviene senza averla provocata con sfide di sorta, o tentazione dettata da hybris prometeica, avviene per via di dèi svogliati di scarso senno o per colpe protoaviche di cui gli interessati non possono avere memoria. Ben diversa dalla vita cheta è la temperie di un forte sentire come, invece, certi viaggi perigliosi promettono ai viaggiatori. Dalle sue vittorie l’eroe ne trae dei doni, diviene speciale, ma non senza aspre lotte strenuamente condotte (anche in modo cruento e spietato) per raggiungere l’agognata meta definita fin dalla partenza (la meta è motivazione e giustificazione degli avvenimenti che intervengono nella vicenda).

Nella desensus ricorrono elementi simbolici relativi alla mitologia della caverna nella quale emerge la figura di donna anziana: una sorvegliante riconducibile all’idea della Madre-morte. Colei che dà la vita consegna il nascituro al destino ineluttabile di, prima o poi, perire: assurge a guardiana femminile dei misteri delle caverne, del mondo degli inferi (Pizia o Sibilla nella sfera della cultura greca e latina). La vecchia siede sopra un’apertura che conduce al regno del «mistero» oppure all’ingresso di una caverna, di una spaccatura della roccia, attraverso cui gli eroi dell’antichità, intraprendevano – dopo una cerimonia sacrificale alle anime dei morti – la loro nekyia, la loro discesa agli inferi. «La cosa particolare da imparare è come arrivare alla fenditura (crack) tra i mondi e come entrare nell’altro mondo. Vi è una fenditura tra i due mondi, quello dei diableros e quello degli uomini vivi. Esiste un luogo in cui i due mondi si sovrappongono. La fessura è in quel luogo. Si apre e si chiude come una porta nel vento.» (C. Castañeda) La figura femminile in funzione di guardiana della Soglia (spesso associata al serpente, cane, drago, etc.) può essere considerata una trasposizione della madre o delle dee madri: quelle sorveglianti starebbero a simboleggiare l’unione alle anime degli antenati, ora aspre, ora pietose, sempre insondabili, esse conoscono tutti i misteri. Questa associazione compare anche nelle forme narrative contemporanee e sono radicate fortemente nella nostra cultura sia popolare che religiosa. Ne sono il sostrato mitologico, con tante sfumature e variazioni. La vecchia, la madre, l’antenata è anche la madre terra. Una madreterra che, nella nostra cultura, risponde al mito agricolo, di sfruttamento del suolo da mettere a produzione. Madreterra sempre vergine che così rappresentata diviene l’insondabile che viene sondato, o meglio solcato, coltivato, conquistato. L’inconoscibile che diviene conosciuto. Il mistero di cui è guardiana, perché ne detiene la sapienza e le chiavi per entravi viene consegnato all’iniziato, il mistero sarà rivelato. La rivelazione dischiuderà nientedimeno che l’oltretomba, l’ultraterreno: il passaggio della morte-rinascita, il potere della conoscenza sulla vita e sulla morte su cui si fonda ogni dominio. L’apertura anziché restare tale, l’inconciliabile dei mille mondi e uno ad infinitum, diviene soglia percorribile fra mondo razionale e altro (a quel punto non più altro, bensì qualcosa di preciso), chiamato irrazionale che a sua volta è descrivibile razionalmente e significabile come follia, caos, confusione, tenebra. L’oscuro viene associato alla terribilità, al male, il bene alla luce redentrice. Ogni elemento narrativo letteralizza i significati, si rappresenta, si concretizza, viene sancito, creduto verità insindacabile. Il sacrum insito nella vita e nella parola, l’incommensurabile, si riduce a un sistema che governa la vita, si fa credenza, religione, re-ligere, lega, unisce, decreta la mappa della salvezza e della perdizione. L’anima o la mente dominano sul corpo, ritenuto residuo anatomico mortale. Il sacro diviene racchiudibile in un locus, il tempio, la fonte, la grotta, e via via nei secoli gli antri geonaturali si sono tramutati in ispirate architetture artificiali e gli intermediari fra i mondi appariranno via via in foggia di vestali e vecchi o nuovi dotti sacerdoti.

Qualunque sia la fonte della rappresentazione di una nekya o di viaggio nel “mondo di là”: racconto cosmogonico, favola popolare, rito iniziatico, narrazione romanzesca, essi sono tutti correlati alla disposizione di un labirinto. In questa rappresentazione è presente un culmine, un punto focale di convergenza delle energie, un luogo critico, un centro in cui tutta l’attenzione viene indirizzata, poiché trovano ivi giustificazione e compimento il senso e il perché (meta), insomma l’intima logica del viaggio.

Il centro è solitamente anche un luogo geografico, un punto di intersezione, il nodo dove si svolge la lotta tra le forze avversarie e quelle alleate, tra il principio di vita e quello di morte, nel quale si deciderà se l’anima resterà prigioniera della notte per sempre, se sarà dissolta dall’annichilimento, oppure se vittoriosa dopo la purgatio e indi purificata, potrà tornare verso il giorno. Il centro potrà essere posto nel punto di arrivo di una perigrenazione di un paesaggio in pianura o su una vetta di una montagna cosmica, il punto più alto della terra, oppure in basso in una caverna o in un luogo sotterraneo, liminare, tra luce e oscurità.

È evidente che il centro compare quasi regolarmente nei sogni di perigrenazione, e non solo in quelli, rappresentato ora come l’interno di un giardino recintato (hortus conclusus), ora come un albero (albero della vita), ora come sorgente che scorre verso i quattro punti cardinali. Talvolta è anche un fiore, che i cinesi chiamano Fiore d’Oro e dobbiamo pensare alla sessualità femminile, in varie trasposizioni emblematiche. Il centro potrà anche essere rappresentato come un’isola che emerge dall’oceano, o come un edificio che sorge su di essa o come una torre, un castello (il castello del Graal o una città celeste).

Qui si manifesta la confluenza di vari motivi arcaici nell’insieme di un’unica situazione dello spirito: caverna, centro, matrice, viaggio, rigenerazione. Va rammentato che, in questo nesso, la matrice femminile è spesso immaginata e rappresentata come una città o fortezza provvista di sette giri di mura che deve essere conquistata non senza violenza, infatti, nella bibbia, città come Gerusalemme (Zion) o Babilonia o Sidone sono chiamate vergine o figlia vergine, il cui destino viene paragonato alla sorte di una vergine prigioniera espugnata.

La catabasi e l’anabasi si trovano sempre alla presenza di un punto d’incontro di energie contrapposte e quindi il centro è sempre pericoloso. Tutti i rituali insistono sulla difficoltà di penetrarvi, sullo scatenamento delle forze disgregatrici, ma pongono anche in evidenza la desiderabilità di entrare in esso. Al pellegrino è imposto un cammino tormentato. Esso deve rappresentare una progressione nello stato spirituale dell’adepto mediante vari gradi di supplizio. L’itinerario che conduce al centro è dunque cosparso di ostacoli e l’atto dell’andare è già di per sé un merito. Con ciò è messa in rilievo una certa mitologia che potremmo chiamare “nostalgia del paradiso”. Ossia il desiderio di essere trasportati nel «Centro del Mondo», nel cuore dell’ultima realtà, in breve intendiamo la volontà di superare in modo naturale la condizione umana e riguadagnare la condizione divina. (M. Eliade) Del resto la stessa parola latina templum viene dal greco temno, togliere, separare, levare dall’usuale, rescindere; dalla medesima radice nasce il témnos, recinto e circuito del tempio e anche tempo.

In questo schema narrativo chiuso di cosa è garante la figura dell’eroe? È innanzi tutto garante del mantenimento della credenza. Il superamento della paura con le prove di coraggio scongiura la morte e certifica l’immortalità. Sancisce la morte come principio da cui fare dipendere il vivente e pone la paura come sbarramento in tutto ciò che si presenta innanzi come ignoto. Il cammino risulterebbe, in siffatta credenza, esposto all’oscurità, alla catastrofe, all’abisso, all’ombra, e solo pochi, prescelti o eletti, potranno avventurarvisi. Per gli altri, non resta che il timore di affrontare qualsiasi cosa e il bisogno di mantenersi sotto protezione e tutela di una qualche entità superiore tangibile o intangibile. Ogni atto che inaugura la novità o un alcunché di differente sarebbe così da intraprendere soggiogati dalla paura, anziché con entusiasmo come occorerebbe. L’oscurità, da elemento da cui procedono le cose (è oscuro tutto ciò che non c’è ancora, e quindi da considerare sempre alle spalle, da situare in ciò che precede), incomberebbe davanti come sgomentante“mistero” da sciogliere. E trattandosi di sconfiggere la paura con atti di coraggio, il circolo: paura, prova, coraggio sarebbe ciò che caratterizza ogni intrapresa, ogni cosa che inizia. Il coraggio, di conseguenza, sarebbe virtù di alcuni valorosi, mentre per i più non resta che la timidezza, l’incoraggiamento, lo scoraggiamento, la proibizione, la prescrizione, della vita ordinaria. L’eroismo, nell’essere eccezione che conferma la regola, è la massima vestigia della vita chiamata ordinaria. L’eroe è l’altra faccia della divinità incarnata. Ci sono dèi che sono anche umani, e umani che divengono anche dèi, questi secondi per loro merito e per temerarietà assurgono all’olimpo a dimostrazione che la proiezione “aldilà” è un luogo conosciuto che detta condizioni nell’aldiquà. Assicura la commensurabilità dell’universo mondo, l’assetto gerarchico del potere e che l’elemento ignoto potrà essere sempre ricondotto al noto. La rivelazione, come l’illuminazione, sono svelamento e luce sul “segreto”, il nascosto, ritenuto erroneamente ignoto (l’ignoto è inconciliabile col segreto), ad appannaggio di pochi. Altro, non resta alterità, ma diventa sempre “qualcosa” di prima o poi catologabile. A dimostrazione che la civiltà è progresso, che dall’antichità al futuro fantascientifico, con tutti gli strumenti innovativi e tecnologici a disposizione, armati di incrollabili certezze, i fautori delle meravigliose sorti future, asseriscono che ogni aspetto del vivente sarà commutabile in artificio-ecosistemico conchiuso, finito e definibile. Altro escluso. L’eroe è uno dei tanti fantasmi del potere e un celebrato scongiuro. Un apotrớpaion. Il re, l’imperatore, il signore, il potere in tutte le sue forme utilizza i suoi eroici capitani coraggiosi per confermare il proprio dominio.

E dalle varie forme di teonto- mitologia lo schema passa nella cosmogonia scientifica. Il mito delle origini, anziché essere approssimativo come lo è per le popolazioni itineranti o che chiamiamo selvagge, diviene interamente coerente e razionale, da prendere alla lettera. Possiede altresì una data d’inizio. Tanto che i pochi gruppi umani, chiamati assurdamente primitivi, sono considerati protocivili e non culture altre, in nome della teoria evoluzionistica e per questo da eliminare o da chiudere in riserve se non disposti a civilizzarsi.

Avventura

A differenza del viaggio dell’eroe l’avventura non ha uno scopo determinato, la meta non le conferisce nessun senso, semmai è solo un pretesto. Tant’è vero che in molte avventure la meta dichiarata in partenza è proprio ciò che nel corso del viaggio si perde. L’avventura non deve raggiungere nessuna rivelazione e neppure illuminazione, è un essere condotti verso altro che non ha un punto determinante, perchè ogni tratto dell’avventura è essenziale, non si situa in un sistema chiuso con una o più soglie da varcare. L’avventura è un viaggio che non ha altro scopo che il viaggio stesso, ci si trova, accade, si seguono gli andamenti, la si racconta mentre la si vive. La narrazione tiene e segue il ritmo, mente, corpo, parola non sono considerati separatezze in cui un elemento prevarica sull’altro, per cui ci sarebbe un viaggio dell’anima che purifica il corpo. Gli obiettivi di un’avventura sono esche, pretesti, potrebbe andare in tutt’altro modo, e anzi, va sempre in tutt’altro modo, perché la strada è sempre altra e la si scorge vivendo. Un’avventura che abbia una meta sarebbe finalizzata e questo smentirebbe l’avventura stessa. Le intenzioni programmatiche, gli ostacoli da affrontare non hanno nulla a che vedere con prove dimostrative o di prestazione. Il viaggio non è diviso fra pericoloso e non pericoloso. Non necessita del phisique du role per spregiudicate imprese temerarie. L’oscuro e l’ombra accompagnano il peregrinare. Oscuro che precede ogni parola che pronunciamo, ombra che mai si para innanzi sul cammino. L’ignoto è semplicemente ignoto e quello non c’è ancora e che vivendo accade per caso, per combinazione, per invenzione. Non c’è la morte davanti, nessuna ricerca, sfida del pericolo di morte, che sarebbe giocare sul fantasma di padronanza per rappresentarlo negli esiti fasti o nefasti. Non per questo il viaggio è esente dal difficile, anche dall’estremamente difficile, ma se dedico la massima attenzione a ciò che incontro, a tutto ciò che si dispone sul percorso, troverò ciò che necessita al momento, in questo la prudenza (providere, provvedere). Riferendosi a imprese gloriose gli antichi latini asserivano audacissimus est idemque prudentissimus (è allo stesso tempo molto audace e molto prudente). I grandi viaggiatori sono dotati di umiltà e prudenza, ascoltano, osservano, colgono ciò che sta loro intorno, sanno sostare quando occorre, fermarsi e con tenacia procedere. Vivere un’avventura vuole dire sentire e accogliere altro, ascoltare ciò che non è riducibile al proprio universo di riferimento, trovarsi a percorrere le superfici del pianeta, altre forme di narrazione e di orientamento e non imporre la conciliazione fra mondi (fra culture, fra artificio e ambiente selvaggio), come ogni mitografia di dominio pretende di fare. Un’avventura è tale se accolgo altro, se accolgo la differenza. Se l’inconciliabile resta tale. Avventura e disavventura sono elementi che intervengono nel viaggio, ne fanno parte integrante senza negarlo e senza definirlo nella maglia del positivo o del negativo, o del bene che deve vincere sul male. La solitudine dell’avventuriero è in primis indipendenza dalla conformità, dal consenso, dall’approvazione, dall’appartenenza.

Da dove proviene questa idea della pericolosità dell’ignoto? E per quale ragione ciò che fa differenza dovrebbe essere una minaccia? A questa stregua appare chiaro che anche una gioia sconosciuta diviene elemento da scongiurare. E, infatti, nella nostra cultura la felicità è ritenuta una meta ideale. Irraggiungibile.

L’organizzazione del pensiero occidentale è un apparato in cui il mito-realtà è interamente già rivelato, il quale rinnova ciclicamente la sua verità metafisica che fonda quella che noi chiamiamo vera esistenza. L’ambito razionale trova la sua massima espressione nella civilizzazione e nel modello città fino a espandersi in tutto il pianeta. La globalizzazione è l’ultima frontiera della mondializzazione dei secoli precedenti. Il selvatico, la natura, la sylva è stata allontanata, ritenuta pericolosa perché selvaggia, indocile, luogo da conquistare per essere convertito all’urbanizzazione. E il modello monocivile sempre più elimina ogni forma (ormai residuale) di altra dimensione culturale. Diviene un modello unico, universalmente imposto, a cui adeguarsi (compreso l’abbattimento di interi luoghi e habitat naturali: foreste, giungle, montagne, etc.). Del resto la verità rivelata non si presta ad ammettere altre forme culturali, altri dimensioni mitiche in cui potere vivere. «Le forme culturali (religiose) e i loro valori non sono universali […] sono fenomeni temporalmente marginali se si pensa alla vita del pianeta[…] convertirsi a un’altra cultura, come a un’altra religione significa fare propria un’altra concezione dell’uomo e del mondo, vita e morte, aldilà…[…] E riguardo a questi punti così fondamentali le culture non sono soltanto diverse, […] ma possono essere inconciliabili. Si potranno prendere in prestito da altre culture alcuni elementi esterni, ma l’assimilazione e la conversione sono impossibili, l’integrazione anche. Entrambe presuppongono, in realtà, la perdita della propria cultura, e per riuscirci si dovrà essere capaci di distruggere la memoria collettiva. È così che un popolo può perdere la propria lingua e la propria cultura. Con la forza, o con altre forme più sottili di dominazione.» (L. Mallart)

E quello che riguarda le culture vale anche per l’ambiente. L’irriducibile alla redutium ad unum è nostra condizione di libertà.

La natura divisa dal contesto urbano ha rappresentato nei millenni l’ambito dell’alterità e dell’originaria condizione adamitica dell’uomo. Natura, che già per essere definita, è idealizzata come condizione di beatitudine e disprezzata come crudele matrigna. L’uomo votato alla cultura della civilizzazione non riesce a sentire l’ambiente intorno, ne è diviso e ne decreta la sottomissione, lo domestica, ne fa tanti orti botanici, parchi, zoo. Il civilizzato è un uomo che ha perduto sapienza e immense risorse di vita. L’idealizzazione della natura è divenuta a sua volta uno strumento foriero di sentimentalismi e strumentalizzazioni politiche oggetto di mistificazione, nella fattispecie del creato allo stato primordiale: la terra delle origini ritenuta inospitale, oppure un Eden, luogo in cui trovare se stessi, il paradiso perduto, sempre da distruggere e ovviamente da salvare.

L’avventura non saprò mai dove mi conduce, approderò a porti, visiterò villaggi, salirò montagne, navigherò mari, sarò ospite di genti e culture differenti di cui misintenderò quasi tutto, non mi affannerò a volerli interpretare, ogni elemento sarà determinante, mai definitivo, il contingente sarà la mia forza, la mia sarà una itineranza che non potrà decretare la conclusione del viaggio da cui tornare con un trofeo da esibire come prova di conquista. Non avrò mai coppe a cui abbeverarmi di gloria. L’avventura non arreca mai premi né salvezza. La prudenza è il suo movimento colmo di attenzione per tutto ciò che incontro sulla via, perché ogni elemento è estremo. Tiene conto in assoluto dell’irriducibile e dell’inconciliabile.

L’avventura è il viaggio esente dalla competizione. Da ogni forma di vittoria o sconfitta. Viaggio che non prevede una meta da raggiungere per essere ripercorsa da altri. Per vivere un’avventura occorrono abbandono, audacia, curiosità, impertinenza, e… silenzio. I viaggi di esplorazioni, i grandi spazi naturali, gli animali di ogni specie sono stati tutti asserviti alla nostra mitologia, ogni elemento è stato inserito in una classificazione discriminante che narra quanto l’uomo civilizzato sia il detentore del primato evolutivo, e per confermare questo ha compiuto ogni sorta di sopraffazione e di distruzione. Ha messo bandiere dappertutto. Vessilli non necessari, tuttavia la mappatura ha dato avvio alla ripetizione delle esperienze, perfino all’industria delle attività potenzialmente cariche di pericolo, come lo sono certe competizioni di sport estremi.

L’avventura è quel che resta di un sentire originario, in cui il viaggio è itineranza, da un luogo all’altro, esposto alla meraviglia, all’insaputo, allo sconcerto, alla paura, alla felicità non potendo mai dirsi un iniziato, perché chi si espone all’alterità, di quella non può dare prova, può ascoltarla, viverla, narrarla, ma non può letteralizzare il racconto, farne un sistema, ciò farne una mappa da ripercorrere per la conquista.

L’avventura riguarda l’Altro, l’altro tempo: quanto impedisce che il tempo, il pianeta, la vita, possano entrare in un regime di utilità, di servizio, che vi sia finalizzazione. Un’arte l’avventura, richiede qualità di vita, sta nel tempo del racconto. Lusso.

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