La scrittura della vita- di Francesco Saba Sardi

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Ci sono libri che sono un viaggio. E non è il solito viaggio, l’andare da luogo in luogo, dunque con una conclusione, un approdo, una finalità. Ma il viaggio di cui parlo è Scrittura. Senza approdo. E lo leggo, lo interpreto, da viaggiatore. Come si legge un viaggio? Senza portarlo a significazione. Senza dunque farne definizione. Perché un viaggio che sia scrittura non ha approdo. Una lettura, dunque, che è tutta un malinteso.
Ma Scrittura è il diniego delle categorizzazioni. Che sono invece le colonne portanti di quel grande edificio che è la Letteratura. Che è chiusura. Mentre la Scrittura è apertura.
L’«amorevole repressione» esercitata dal Potere, che si esplicita nella Letteratura, impone, primum movens dell’immobilità, l’ascesa al Monte Nebo dell’origine. Lo comanda il buonsenso. Che è logico-discorsività, nella versione del logos occidentale, il Discorso elettivamente tale, conquistatore ormai del mondo intero. La velleità di tradurre tutto in discorsese, l’arte in primo luogo. Imposizione alla quale la poesia che esige il ritmo anziché il finalismo, si sottrae da sempre. Che non gira su se stessa, sta bene alla larga da quello che Octavio Praz definiva el movimiento del circulo, che è l’agitazione del gatto che corre dietro la propria coda, e dunque è stasi. Ed è maestra de espejismos, di illusioni, di immobili specchi. Negati dalla quietud en el centro del movimiento. E, raccomandava Praz, non predecir: decir, cioè indicare, evocare un mundo mondo, pulido como hueso, perché decir es mondadura, poda el árbol de los huesos.
Vediamo un po’ le ossa appese ai rami. Ed ecco l’autorappresentazione, il nostro immaginare noi stessi. Sarebbe il soggetto. Il quale è accompagnato da una folla di fantasmi. Quelli che popolano le pagine del romanzo, vertice e sintesi della Letteratura. Scrittura e Letteratura sono metafore di una condizione che non è limitata ai grafismi, la stesura di segni su una superficie. Riguardano infatti le imposizioni, esplicite o meno, del Potere. E che si manifestano a ogni livello. Sotto forma, per esempio, di universalità: di concordia universalis ottenuta grazie al dialogo. E il Potere è sempre lo stesso, al di là delle differenze topiche. Lo è in quanto è il Discorso il perenne riferimento all’essere, al sovrumano, alla morte. Altrettante ipostasi dell’origine. Letteratura come principio del terzo escluso, della non contraddizione. Per restare nell’ambito dei grafismi, il Discorso occidentale, che è il cogito, propone una sintesi tra le polarità del Discorso e poiesis, l’uno esporre secondo grammatica e sintassi, l’altro come l’anacoluto e paratassi. La sintesi proposta è quella della Letteratura, la quale obbedisce alla dittatura del Discorso. Letteratura come retorica, che dunque deve avere uno scopo, una finalità. E che contiene il germe della censura. La Letteratura ha il proprio vertice nel romanzo che è un portato dei Tempi Moderni, quelli che, per dirla con Heidegger, hanno fatto dell’individuo il «fondamento di tutto». E il romanzo rispecchia punto per punto le norme del Discorso, del buonsenso, del rispetto del Potere. Risponde al principio della sorte-tradizione e delle sue conseguenze. Genealogia, dunque, per lo più patrilineare. La madre, il fantasma materno, interviene a persuadere il personaggio «a fare il bravo», alla paura e all’affanno, alla necessità di fidarsi di qualcuno: una lunga catena di color che sanno, a capo della quale sta il buon Dio.
La Letteratura finisce insomma per convergere con il fantasma materno. E il personaggio segue una strada obbligata lungo la quale, come in tutte le favole, si scontrerà con ostacoli. Nella favola, a tirarlo fuori dai guai è un intervento magico. Nel romanzo, la sua volontà di raggiungere la meta. Ahimè, il personaggio del romanzo è, dall’inizio alla fine, idealmente sul letto di morte. La strada del labirinto non è per lui. Il personaggio è pieno di ricordi, dai quali, e dal loro estratto, la nostalgia, ricava indicazioni circa il filo di Arianna che dal labirinto lo tolga. La vicenda del personaggio – uno o plurimi che sia – è la storia come genesi e apocalisse, come idea della fine. Il personaggio, ammeno di non essere il figlio del cielo, come nella favola del Natale, magari toccherà la meta, non si rassegnerà al Sein zum Tode del solito Heidegger, il metafisico. Insomma, il romanzo classico, la serie delle vicende, dei «fatti della vita» (e l’unica possibile eccezione è la Parola che si faccia narrazione), è tutt’uno con i discorsi politici, le prediche dai pulpiti ecclesiastici, giornalistici, accademici, e persino asilari, le sedi della medicina penitenziale. Il romanzo classico è predica e favola del Bene, è l’esclusione dell’istanza intellettuale, è approdo al definitivo, al certo, ed è l’apocalisse. Condizione alla quale non sfugge nessuna delle attività che si esplicano in grafismi, la saggistica, la filosofia, i Sachbücher, i libri di cose meramente tecniche. Perché in ogni caso si tratta della forma-trattato incentrata sulla soggettività. Responsabile cronaca, dunque. Letteratura, cioè grafismi come vicende psycho-philosophique, e pertanto chiusura, ghetto offerto come norma alla quale rifarsi.
Scrittura è tutt’altro. Anche se è inceppata dai grafismi. Ma la poiesis è Parola, è voce senza essere su carta o schema, nonostante le gabbie, le trappole preparate a ogni passo dalla Letteratura, dal dover-essere. La Scrittura, che sia verbale, che sia dipinta, che sia musicale, danzata, gestuale, sta alla larga dalla metafisica con i suoi molti travestimenti. Non teme l’Altro. Scrittura è scrivere per l’Altro. Quello che sta alle spalle di chi scrive, muove il pennello, è derviscio rotante, e l’Altro scuote il capo, borbotta, non dà mai il suggerimento giusto. Perché non intellettualizza, a differenza del Discorso, quello che sta bofonchiando: Pensieri, Parola, i suoi, che non colgono il proprio significato – lo specchio del se stesso – e appunto per questo sono gli unici accettabili.
Scrittura è celebrazione della vita non in attesa della morte. È scommessa. La Scrittura non si scrive, non si registra, solo si tra-scrive. Ed è malinteso, vista dalla parte della Letteratura è menzogna. La Letteratura, il buonsenso, se ne indigna. Ma come, l’io non si scrive? Ma l’io va ingabbiato, bisogna dargli un nome, un numero, attribuirgli un sintomo!
Letteratura è anche, e necessariamente, medicina. Essendo l’esposizione del Bene, del necessario, dell’inevitabile, questo capitolo della Letteratura sa perché la malattia incombe. Sa che tutti siamo malati potenziali. Sa che la malattia è un brutto segno: la fatalità incombe. La vigilanza sanitaria è un dovere. Ne deriva che siamo un coacervo di segni. E l’ideale sanitario è l’atomismo, la definizione, il controllo, la guarigione di ciascuno dai segni della frammentazione sintomatologica. La medicina-Letteratura (ma non ne esiste, da noi in Occidente, un’altra) non è avulsa dalla generale visione del mondo. Dunque, non si occupa della salute, cosa che decisamente supera la somma di componenti. O se ne occuperebbe se potesse perdere, e purificare, ognuno dei componenti. C’è un preciso nesso tra medicina e religione. L’una e l’altra hanno di mira la Salvezza, la Redenzione (dai mali terreni), entrambe operano una contaminazione tra salvezza e salute. Dev’esserci il rischio, proclamano tutt’e due. Rischio legato alla naturalità. Letteratura e naturalità, dunque. L’idea dell’ordine immutabile. Che contiene il rischio. L’aldilà contiene sia il buon Dio che il perfido Satana. Anche lui necessario. Ma si deve fare di tutto per evitarlo. Affidandosi a color che sanno. Coloro che conoscono i fini, gli scopi. Il senso della vita.
E il senso dell’arte, beninteso. Perché l’arte non può certo essere un lusso, deve ben essere e avere un valore. L’arte deve collocarsi nel tempo, nel suo tempo. E il Discorso deve essere spazializzato e temporalizzato. È anatema sostenere che nessuna realtà sta sotto la Parola! Il quadro è bene il quadro, no? Misurabile, con certe figure, certi pigmenti. Come la Letteratura-grafismi, la pittura deve imparare a vivere e a morire. E lo stesso deve fare la musica: non è forse espressione di sentimenti? La Letteratura illustra, nelle mille e una dimensioni, la vita in potenza, l’esistere come sopravvivenza.
La Scrittura rifiuta invece il naturalismo. Rifiuta l’idea di destino e di padronanza, rifiuta il Kunstwollen. Non accetta il principio della Letteratura, secondo il quale ciò che si vede è il reale. E che quindi accettabile sia solo la lucidità della veglia. Mentre il sogno è negativo, è dimenticanza, non ripropone ricordi, bensì invenzione. Dunque, proclamano gli psicotecnici di ogni risma, è menzogna! È infido! Soltanto i selvaggi possono accettare il dreamtime!
Il quadro, dunque, è proprio il quadro. La pittura-Letteratura è giustificata da discorsi, dalla critica, dall’idea anteposta all’esecuzione dell’opera, e basta infatti accennare all’idea, dare le installazioni. Il pittore, come ogni uomo, dev’essere governato da se stesso. Dal suo Sapere. Dai pregiudizi. Dal buonsenso. L’invenzione, è il sottinteso dell’Illuminismo, è la negazione della sensuum evidentia. L’uomo deve, innanzitutto, vedersi. Rinchiudersi nel cerchio, nell’immobilità che sembra movimento. Lo è: è quello del gatto che insegue la propria coda.
La Letteratura-medicina, la Letteratura-arte, eccetera, è canone. È quello che bisogna sapere, sulla scorta del quale regolarsi. È il buon gusto. Ed è Sapere sull’Altro. Che è supposto, non solo astante come la Divinità, ma accessibile e descrivibile. Ma, sosteneva Picasso, il buon gusto è il nemico della creatività; e Marcel Duchamp: «il grande nemico dell’arte è il buon gusto».
Il buon gusto, in una parola, è fratello gemello della predestinazione, che è sostanziale al Discorso. Il quale, nella sua versione medica, ignora l’istanza del valore intellettuale. E deride il witch-doctor, si fa beffe dello sciamano. Sa come si deve affrontare il tumore. Sa che bisogna credere (dirò tra un momento cosa significa questo verbo) nella TAC, nell’intervento chirurgico, nella pillola prescelta fra le tante offerte dalla farmacologia-salvatrice. La medicina non si affranca dal Discorso, dalla metafisica. E ignora che la salute è frutto della Scrittura, anzi della Scrittura-narrativa. E che la scommessa intellettuale non si aggrappa alla speranza della salvezza, all’idea di bene.
La Letteratura si aggrappa ai ricordi, quelli infantili (psicanalisi), quelli della famiglia e parentela (genealogia), e il Potere nelle sue molte ipostasi pretende di fare altrettante regole, norme, precetti: i sovrani non sono forse legittimati dalla discendenza? E forse che l’eroe del romanzo non ha una genealogia condizionante? Ogni saggio, ogni testo ideologico, filosofico, scientifico, bell’artistico, finisce così per essere una biografia, anzi un’autobiografia. Ha radici nella conoscenza, e rifugge dal mitico. Come la religione, che vuole anzi essere la più decisa, fondamentale, sistematica negazione del mitico. A costo di inglobarselo. Le chiese infatti contengono il mito, si fondano tutte sull’incarnazione, l’umanizzazione del Figlio del cielo, e sulla affermazione, cioè sulla credenza, che è avvenuta una volta per tutte (cristianesimo) o a più riprese, i successivi Salvatori della religione iranica in attesa dell’ultimo, lo Saosyant. Così facendo, le religioni mettono in catene il sacrum, la Parola: ne vedono solo il presunto risvolto oscuro, pericoloso: la «parte maledetta» di Georges Bataille.
Sicché, nel grande capitolo della Letteratura, il male viene attribuito all’Altro, all’Altro è attribuito il peccato, l’errore naturale, astrale o genetico; e tutto viene regolamentato dal diritto, che è tolleranza, non certo altruismo, ma anzi metodologia del profitto.
La Letteratura è dunque genealogica, mnemonica, nostalgica (si rifà ai ricordi, al ricordare, alla mnemonica), oscilla tra bene e male, è il catalogo dell’ancestralità. E la nostalgia è un dolente piacere, senza mai l’aspirazione alla qualità – ammenoché non venga conferita, come un premio letterario, dagli addetti al giudicare, reprimere, assolvere.
La Letteratura è dunque il voler essere, e il personaggio ne è il parametro, con la sua speranza di accesso (per un colpo di fortuna, per l’abilità innata di chi è baciato in fronte dagli dei) diretto al movimento, al sapere, al riso. La Letteratura è promessa. È deposito, l’elenco dei ricordi. Ma la storia non è maestra. Non serve a evitare i massacri. La storia, uno dei capitoli della Letteratura, invita a credere.
Ma credere, cos’è? Per dirla con Mark Twain, è dare per certo ciò che sai che non è così. Oppure, discorsivamente, supporre una corrispondenza tra la forma logica delle proposizioni e la struttura del mondo dei fatti. Il reale è il letterale, tale il dogma continuamente negato e sempre riproposto. Perché della ratio si può, anzi si deve, dubitare. Ma nei termini della ratio, secondo il presupposto, un atto di fede, che c’è ben qualcosa di più reale, di realissimo, di assolutamente incontrovertibile. E sarebbe il sintomo secondo Lacan, e la realtà psichica secondo tanti, a cominciare da quelli che Aloyse Cinzio, l’autore cinquecentesco del Libro della origine delli vulgari proverbi, chiamava i chergi che tutto sapevano. E se la realtà fosse solo la realtà della Parola?
Il viaggio. Il non approdo. Nessuna dimostrazione. Il viaggio non esige la prova. E il probabile non è la prova. Si può forse provare il bene? Provare il male? Provare il reato? Provare l’innocenza.
Scrittura è fare le cose non secondo precetto, ma secondo l’occorrenza. E, nel viaggio, nessuno è salvo o perduto. E il viaggio è intellettuale, non memoriale. Non è una crociera. È fatto di vuoti di memoria, la quale è composta da ricordi. Da cartoline illustrate. La Letteratura è la routine esaltata a esempio glorioso. È il trionfo della durata e dell’opportunità. Esclude quindi il malinteso, non vuole saperne di quelle lacune che sono appunto i vuoti di memoria. E, teste George Steiner, nel suo Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, appena edito da Garzanti, l’assenza di una consapevolezza decisiva, finalmente capace di soddisfarci, comporta eine dem Leben anklebende Transigkeit, una tristezza dalla quale non possiamo affrancarci: siamo «stranieri a noi stessi e all’enormità del mondo». Per metafisico decreto, ci è vietata la gioia, ammeno che non sia i tetri ritmi militareschi della marciante Gioia dell’inno conclusivo della Nona di Beethoven. Ma, dice la favola-religione rivelata, la Salvezza avverrà: sarà il Secondo Avvento del Redentore che è già nato. L’allegro trionfo dell’eutanasia. Allegri, ragazzi! Essendo il Salvatore nato una volta per certo, impossibile che non riappaia. Basta aver fede nelle cose, le realtà che capitano. La vita ha un destino, altro che vis existendi. Certo, la Scrittura impone il distacco che è condizione del racconto (ma anche condizione del silenzio, il rifiuto di risolvere enigmi e puzzle), ed è la ragione dell’Altro. Proprio quello che il Dominio, trinità di potere, religione, guerra, non vuole. Proprietà del Dominio è la Società, cioè la gerarchia: ciascuno al suo posto decretatogli dalla nascita e dal dover-essere. E la riduzione della Parola a res, a oggetto accanto a mille altri, tutti utilitaristici, significa fare del linguaggio, alla Wittgenstein, un unico gioco linguistico, quello della rappresentazione del mondo. Per affidarmi al Beato Sigmund da Vienna, al trionfo del principio di realtà, pericolosissimo quello di piacere. La vita non è forse una condanna?
Il Potere, voglio dire, è sempre al livello sintattico-grammaticale; re e sacerdoti proclamano di possedere le «chiavi» ontologiche, devono solo ripeterlo di continuo, come le bugie di Goebbels che, reiterate, si trasformano in verità; e devono imporlo: la sottomissione costituendo la prova che il mondo è quale è stato detto dal sovrano. E, mentre le invenzioni sono innumerabili , la Letteratura-psicanalisi sostiene l’immutabilità del soggetto – e del suo corpo mistico, quello che risiede nel sanctum sanctorum del faraone che andava a rendere omaggio – al filo di luce che filtrava dall’unica fessura.
Concludo. Il cerchio in cui il gatto corre dietro alla propria coda, e l’Uroboros alla morte, è la specularità che equivale a entrare nella mortalità, nell’eleggere l’afflizione. Il contrario del racconto, della dimenticanza, del sogno. Ma a compiersi non è il destino, è la Scrittura. La quale si rifiuta, in ogni sua versione, di ridurre l’Altro, di personificarlo. Di inchinarsi al dio antropomorfo, al sovrano itifallico, all’unto dai suoi vicari del signore. Letteratura: sempre col rischio che tutto riprecipiti nel mitico, che la Parola constati di essere effettivamente senza origine, e quindi non assudditabile al Discorso. Mentre la Scrittura dimostra, con il suo stesso vocalizzarsi o inscriversi in grafismi, che il cammino, il viaggio, è intellettuale. E che l’arte non è definibile ma senza di essa, almeno per i più sensibili, la vita sarebbe quel beneficio concesso ai mortali dalla bontà del Dio-natura.
Una nota personale. Io pubblico presso vari editori, quelli che ci si ostina a chiamare romanzi per inserirli in un genere. Pazienza. Fa parte delle afflizioni imposteci dal Potere nella sua ipostasi di fogli legati assieme e imprigionati in una copertina.

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