Francesco Saba Sardi – Per un’esistenza non ontologica, ovvero, storia dell’essere.
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Francesco Saba Sardi – Per un’esistenza non ontologica, ovvero, storia dell’essere Conferenza 1984.
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Partirò da un’affermazione fatta da Beluffi nel corso della giornata precedente: la psicologia prima, e poi la psichiatria, sono filiazioni del pensiero filosofico.
Va fatta subito una precisazione, per pensiero filosofico si intende quello occidentale in primo luogo, e soltanto secondariamente filosofie orientali, in pratica indiana e cinese. E filosofia occidentale vuole dire sviluppo del concetto di essere. Uno sviluppo che è cominciato con Parmenide e che si è imperniato su uno dei concetti più ambigui che il pensiero occidentale abbia elaborato. Ne traccio una brevissima storia. Il problema dell’essere è il problema di ciò che esiste, del reale in noi e fuori di noi. Va distinto, nello sviluppo del concetto, un periodo che grosso modo si può definire prekantiano, e un periodo postkantiano. Nel primo, Parmenide, che lo inaugura, almeno stando ai documenti storici di cui si dispone, pone la questione della distinzione tra essere con funzione di copula (io sono, tu sei, ecc.), ed essere come assoluto, ovvero esistenziale (Dio è).
Sarebbe troppo lungo illustrare il passaggio, tuttavia fondamentale, delle lingue che si potrebbero chiamare “pre-essenti” e le lingue “essenti”; basti dire che in ambiti non indoariani, il soggetto non sempre è fisso, non sempre è un perno attorno al quale ruotano verbi e oggetti. Il soggetto, in altre parole, varia con l’azione che compie. La fissazione, la cristallizzazione del soggetto, e il tentativo di definirlo, vale a dire di trasformarlo a sua volta in oggetto, che è il problema dello specchio, ha luogo, a quanto sembra, in concomitanza con l’affermazione o invenzione del principio gerarchico, con la trasformazione dei gruppi umani in società.
A un certo punto, il soggetto è. Ed è vietato dubitare della realtà e del perdurare della persona del sovrano-sacerdote, modello di ogni soggetto, soggetto per eccellenza. Il sovrano-sacerdote muore soltanto in apparenza. In realtà, scompare dalla terra per essere assunto tra gli dèi. Per Parmenide, commentatore e interprete della gerarchia, il concetto di essere è pertanto univoco e unitario. L’“essere”, sostiene Parmenide, “è uno”, si definisce in opposizione al non essere: “l’essere”, afferma sempre Parmenide, “è e il non essere non è”. Traduciamo queste due affermazioni nel linguaggio di chi osservi dal di fuori la gerarchia, e tuttavia possieda gli strumenti logici indispensabili ad analizzare le due proposizioni (si tratta di una pura ipotesi, perché in effetti chi non appartiene alla cultura gerarchica o, se si preferisce, piramidale, non possiede gli strumenti logici in questione; ma di questo, tratteremo più avanti). Dunque, per l’ipotetico osservatore le affermazioni significano: c’è un ente del quale fanno parte i soggetti, cioè tutti coloro che non appartengono al mondo dell’informe, che non sono “uomini di natura”, ma che dalla natura si sono separati e distinti.
Costoro, e soltanto costoro, appartengono al mondo degli dèi. Stanno infatti nella città, che ha al suo centro reggia e tempio. Soltanto costoro sono in grado di cogliere l’unità sostanziale dell’essere, perché soltanto la ragione è in grado di elaborare il concetto, in quanto i sensi presentano l’essere piuttosto come molteplicità. Per la ragione, invece, la molteplicità è apparente, e apparenti sono il mutamento e il tempo. La ragione elabora così, lentamente ma sicuramente, l’idea di un dio unico, astratto, privo di connotazioni sensibili. La città, vale a dire la gerarchia, tende al monoteismo, e nelle città in cui abiti una folla di dèi, come nel caso delle culture mesoamericane, atzeca, tolteca, ecc., dove insomma manchi un dio dominante e accentratore, la città corre di continuo il rischio di sfaldarsi; è disorganizzata, incoerente, priva di solide fondamenta. Donde la provvisorietà delle formazioni urbane mesoamericane.
Oltre che uno, l’essere è dunque immutabile, eterno e necessario. Platone apporta, a questa concezione, una piccola ma sostanziale variazione: anche il non essere si può dire che in un certo senso è. Basta che con non essere si intenda, non già il contrario assoluto di essere, ma ciò che è diverso dall’essere, in altre parole ogni idea che non sia quella dell’essere. Ancora una volta, traduciamo il concetto in termini dell’ipotetico osservatore della gerarchia: traduciamoli, se è lecito dirlo, in non-gerarchese. È non essere ciò che è fuori dall’essere, vale a dire dai limiti, testimoniati dalle mura della città, in cui ci si identifica con l’Essere (con la E maiuscola). La filosofia postplatonica è una lunga serie di esercitazioni sul concetto di “essere in quanto essere”. Aristotele procede a sottili distinzioni, sulle quali non mi soffermo, limitandoci a ricordare i suoi concetti di esseità, essere per sé (la sostanza), essere in atto. La forma, dice Aristotele, è ciò da cui viene la sostanza. Niente di reale è infatti immaginabile che non sia determinato.
La metafisica di Aristotele è stata ripresa nel XIII secolo dal pensiero cristiano con il concetto di creazione. San Tommaso distingue tra potenza e atto, ovvero tra essenza e esistenza. Varrà la pena di sottolineare che, a differenza di quanto avviene nella filosofia anticoclassica, la filosofia cristiana pone un atto libero come intermediario tra essenza ed esistenza. L’essere viene così sdoppiato in essere mondano ed essere celeste. Mentre in ambito anticoclasico si ha un unico essere, immutabile (abbiamo visto prima come tempo ed apparenza siano considerati irreali, o meglio inesistenti, cioè mondo non umano; ed è una concezione che trova il suo esatto riflesso nella società schiavistica), nella visione cristiana si ha una scissione. Il mondo di lassù, l’essenza, è immutabile, perfetta sfera. Il mondo di quaggiù è mutevole, e su di esso è possibile, è lecito, è anzi doveroso intervenire. Dalla teologia alla scienza il passo è breve. E senza il cristianesimo sarebbe inconcepibile l’industria.
Nella filosofia moderna, postkantiana, incentrata sulla critica della ragione, si nega che l’esistenza possa venire intesa come predicato; l’essere è introiettato, l’essere è un operatore. Heidegger propone di recuperare l’essere dall’“oblio dell’essere”, e l’uomo che torni a essere il “pastore dell’essere”, accogliendo la rivelazione che l’essere stesso fa di sé attraverso il linguaggio e in particolare quello poetico. Sartre – mi limito a brevissimi accenni, ovviamente disordinati – ha inteso l’essere come capacità priva di senso: sappiamo di esserci prima di qualsiasi qualificazione del nostro essere. L’empirismo logico, infine, considera l’essere come un groviglio di equivoci linguistici. Si tratterebbe di un falso problema.
Ma è davvero un falso problema? Non lo è. E non lo è per il solo fatto di essere posto; è anzi lo scoglio contro il quale cozza da quando ha corso, la ragione occidentale. Innegabilmente però, si tratta di un equivoco linguistico. Il quale, d’altra parte è tutt’altro che innocente. La nozione di essere, come del resto la logica, sono strettamente connessi con lo sviluppo della gerarchia. E basta, per convincersene, l’esame etimologico della parola essere. Essa deriva dal greco ek-stasis, “star fuori”. Ma star fuori di che? Stare fuori dal pro-fanum, stare nel sacrum. La gerarchia, come mi pare di avere detto in precedenza, è appropriazione del sacrum, monopolio del mitico. Il non sacrum, o per meglio dire il sacrum non buono, inaccettabile, il sacrum ctonio, è confinato, come del pari ho detto, nello spazio circolare ai piedi dell’urbs quadrata, oppure nella grotta dove sta ancora la sibilla (l’operazione di colonizzazione del mondo è lenta), o ancora, nella selva, nella forra, nel deserto. Gli è concessa una vita provvisoria fuori dalle mura, in attesa che la cultura divenga tutta urbana, secondo il programma del potere. Un programma esorbitante, iscritto nella stessa forma potere. Il non sacrum, il sacrum in sottordine, sacrum ctonio, infero, sarà a poco a poco redento, oppure destinato nel suo residuo indecomponibile, alla eterna maledizione. L’essere si è collocato quindi dentro le mura, nell’ambito del sacrum, accettato e accettabile. È ormai tutt’uno con il potere. Diviene statico, soggetto che muove il mondo. Tra soggetto e oggetto è intervenuto uno stacco, uno iato; il primo regge e governa, tramite verbi ausiliari (verbi schiavi, verbi militi, verbi strumenti), l’oggetto che è tutto il resto del mondo.
È chiaro dunque che l’ambito dell’ek-stasis gerarchizzato è la norma cui si contrappone la dis-norma. L’ek-stasis gerarchizzato è la ragione contrapposta alla sragione. La logica si presume, in tale contesto, universale. In effetti, è solo predicatrice, e la ragione con questo strumento elettivo si accinge al compito, immane, di ri-creare il mondo, di cartografarlo tutto quanto, di impossessarsene totalmente.
La sequenza dunque è: invenzione della gerarchia (o del potere) uguale invenzione dell’essere come ente nell’aldiqua, contrapposto all’estasi, all’uscir-si, e l’invenzione della scissione dell’essere, che abbiamo vista attuata dal cristianesimo, permette la definitiva conquista del mondo, il suo completo “ragionamento”, che è quanto dire la nascita della scienza – tecnologia – industria.
La ragione prende così il posto della sapienza, ovvero del contatto immediato col mondo, dell’abbandono al tempo sogno e della magia. Ciò che è dentro acquista valenza a scapito di ciò che è fuori. Il dentro è la norma, la ragione. Il fuori è la dis-norma, la sragione. Solo questa scissione può chiarire la nascita della medicina, e dunque la nascita della psichiatria e la nascita della follia.
Ripeto: soltanto in ambito occidentale è dato assistere al capovolgimento dell’essere, al passaggio da ek-stasis, star fuori, a star dentro. Si può anche dire che l’essere così inteso è il principio di consapevolezza, di autoriflessione. L’arte di guarire occidentale, ovverosia la medicina, muove dal presupposto fondamentale di una contrapposizione tra norma e dis-norma. Basta, per convincersene, porre mente all’etimo di medicina. La derivazione immediata del termine è dal greco Mêdos, Mêdoi (plurale), latino Mēdī, divinità della guarigione, ma ben più remota è la radice indoeuropea: è la stessa del latino mederi, dell’antico sassone metan, dell’altofrisone meta, che vogliono dire misurare, dal gotico mitan, misurare ancora dell’antico irlandese midiur, giudicare, del greco medesthai, essere attento, fare attenzione (in inglese moderno, to be mindful ); in latino si ha modestus, moderari, meditari, in paleoiranico, ovvero avestan vī–mad, misuratore, ma in seguito, guaritore. Vi prego di notare la vicinanza tra la radice indoariana med e mente, inglese mind, e l’idea egizia del Misuratore sia come giudice che come colui che presiede al pensiero.
Dunque, il medico guarisce in quanto commisura, istituisce il paragone tra norma e dis-norma e riporta il malato alla norma. Soffermiamoci un istante anche sull’etimo di “malato” e “malattia”. Greco, melon, melon, pecora; armeno, mal, pecora, ariete; latino, malus, piccolo ma anche cattivo. Inglese moderno, a parte il suffisso mal (maladaptation), small, piccolo. Nelle figurazioni egizie delle primissime dinastie, il faraone ha carattere belluini (e si ricordi che nelle religioni più antiche le figure divine e semidivine sono semibestiali – la bestia è la porta dell’aldilà, quanto di più prossimo all’irraggiungibile carne sia dato vedere e usare come simbolo, il veicolo per eccellenza verso il sacrum), il faraone, dunque perseguita capre, gazzelle, pecore, animali per noi innocui ma che sono evidentemente concepiti come il piccolo contrapposto al grande: piccolo che brulica, che insidia il predominio del grande; moltitudine, gregge di popoli da domare; piccolo da sottomettere, sfondo sul quale si staglia il grande; piccolo e molteplice da sacrificare a opera dell’unico, di colui che è. In tedesco, i brulicanti sono detti gli Ungeziefr, gli innumerabili, gli immisurabili. Ciò che sta al di fuori, appunto, oltre le mura in cui abitano i contati, i censiti. Urbs e censimento sono infatti tutt’uno. Ricorderò ancora che nel focolare di molte regioni europee gli abitanti di Feeria, folletti, gnomi, troll, poltergeister, tutti potenzialmente maligni, potenze che si può solo tentare di tenersi buone, sono indicati con il nome di “piccolo popolo”, Kleinvolk, in tedesco, little people in inglese.
Il medico, dunque, si oppone al malum. Ora il germe è per definizione il piccolo, l’invisibile. Fino alla scoperta di Pasteur, il germe causa della malattia, era ritenuto qualche cosa di invisibile e impalpabile, il miasma. La malaria era prodotta, non dal plasmodio, dall’aria cattiva: Il concetto di germe è tenace. La medicina non sa farne a meno. Cerca il germe-cellula del cancro e cerca il germe della follia. Se non lo trova, lo suppone. La psichiatria pala infatti di “malati di mente”, e già in precedenza vi ho ricordato che lo stesso Freud asseriva che le lesioni celebrali, la presunta causa fisica del mal di mente, se non sono state individuate prima o poi lo saranno di sicuro.
Matto e medico celebrano il proprio sposalizio in Europa a partire dal XIII secolo, in concomitanza dell’affermarsi della coppia essenza – esistenza, potenza e atto. Il medico può, da questo momento, intervenire sul matto, interferire nella pazzia. La rivoluzione apportata da San Tommaso comporta infatti la definizione del mondo profano, dell’aldiqua, e la sua definitiva separazione dal mondo sacro. Ci sono intermediari tra l’uno e l’altro, ci sono intercessori: ma ci sono proprio perché i due ambiti sono separati, e all’aldiqua è attribuito il libero arbitrio. Culto di Maria, dunque, se pure non ufficializzato (ma già Beatrice è guida), e chiara sistemazione dello statuto dei santi, elaborazione del codice dei peccati e delle penitenze, istituzione del Purgatorio, vale a dire di un sistema di dare e avere, di scambio tra due mondi. Dal profano, il sacerdozio sempre più si ritira, lasciandone arbitro il sovrano che è, tuttavia unto dalla Chiesa e resterà a lungo defensor fidei. Il medico assume nell’aldiqua, certe funzioni del sacerdote. È lui ad occuparsi del matto, il quale va ricondotto alla norma. E a questo punto, nel pensiero occidentale, l’emblema de “La Follia”. Entità di cui si parla e discute, di cui si pretende di definire limiti e prerogative; le città assumono sempre maggiore importanza, la delimitazione in tutti i sensi, dei confini e delle competenze, dei diritti e delle pene, delle tassazioni e delle corporazioni, del sano e del malato, è di tale incidenza che sorgono e si diffondono come è noto, studia, università, facoltà di giurisprudenza. Soltanto allora è possibile la visione di Erasmo della Follia come sottofondo delle azioni umane, soltanto allora è possibile relegare la Follia in ambiti, quelli che saranno poi le corti dei miracoli e le case dei matti. I quali non sono più portati nei santuari, dove intercessori umani e divini potranno ridare loro la ragione perduta, reinserirli nella comunità, ma sono delegati al medico ammeno che non si sospetti nella mattana, l’opera del demonio, e in tal caso interverrà l’esorcista. La parola folle, da follis, vuoto, sostituisce la parola matto, che come ho detto deriva dall’arabo mat, morto (Shah mat, il re è morto, scacco matto). La terra sterile, nel Cinquecento in Lombardia cessa di essere chiamata “terra matta”, morta. Le distinzioni si fanno più sottili; si inaugura l’era delle classificazioni.
Dunque, soltanto in occidente o negli ambiti investiti dall’avventura dello spirito occidentale, il matto è folle, ovverossia con la mente vuota, e poi, esplicitamente, con la mente malata, in un primo tempo perché si suppone che abbia la pietra della follia (e si vedano le molte figurazioni di Bosch in cui il medico tenta di strappare dalla testa del matto la pietra), poi perché lo si suppone sottoposto all’azione di germi, di arie viziate, di malsani effluvi.
Del matto si prende allora cura il medico generico dapprima, quindi lo specialista in frenologia. Soltanto in occidente o meglio negli ambiti occidentalizzati la mente è un’entità, un intermediario tra essenza ed esistenza, sede dello spirito umano, dell’anima che è appunto intermedia tra aldiquà e aldilà. È una sede vagante: sta inizialmente nel fegato e solo a partire dal XIII secolo, questo grande spartiacque, il Dugento (uno spartiacque anche nelle arti visive, si pensi solo a Giotto, all’invenzione della prospettiva), si stabilisce nella testa gli organi contenuti nella scatola cranica, luogo protetto, città murata dell’anima. A mano mano alla mente insediata, localizzata, si attribuiscono le funzioni di mediatrice di tutte le funzioni corporee, di sovrintendente, di capo, di caput, colui che sta sopra. L’odierno concetto di funzioni cerebrali è la versione moderna della mente-entità. Il malato di mente è dunque uno specializzato di cui si occupa un altro specializzato. La generica follia, il vuoto, l’assenza di ragione, cede il campo a una serie di definizioni specializzate (schizofrenia, mania, ecc.)
Vorrei che quanto detto finora non si prestasse a equivoci. Ciò che genericamente indichiamo come follia o con una serie di nomi che designano presunti quadri sintomatologici, sempre fluidi, ambigui, variabili; la follia, che non sappiamo cos’è, ma che non manca mai di affascinarci, è nata, con un lento processo di gestazione, a partire dal XIII secolo. Prima è indefinita: il matto è il furioso, il dissennato, il tocco, il posseduto, non il moderno malato e neppure ancora il portatore della Follia, colui che incarna l’emblema dell’assenza. Dicendo questo, non do giudizi di valore, non intendo affermare che la visione occidentale della “follia” sia migliore o superiore o invece peggiore, inferiore ad altre visioni. Semplicemente, è integrale alla mito – cultura dell’occidente. In altre culture, hanno fenomeni grossomodo assimilabili alla follia occidentale, come il rapimento da parte degli spiriti in molte zone dell’Africa nera, l’estasi del dervish, l’apparente catatonia degli zuñis dopo l’orgia a base di bevute di orina, si hanno stati che i “normali” cercano di imitare in vari modi, vedendo nei lontani equivalenti della nostra follia stati privilegiati: il «matto», morto al profano, penetra sciamanicamente nel sottosuolo o sale lungo una corda o un albero tra le nuvole e si serve per farlo di possibilità per così dire endogene nel caso del posseduto, ovvero di “aiutanti” esogeni. In ambito agricolo europeo, fino al Settecento erano diffuse due sostanze ben note, la canapa, la normale canapa dei tessitori, e un fungo, l’amanita muscaria ( non la falloide), il soma della cultura indiana. Meno diffusi, perché di più difficile impiego, la belladonna, il vischio, il luppolo (con cui non per niente si fa la birra, liquore inebriante, che in Lombardia è detto luertis e nelle valli occitaniche del Piemonte vertis, vertigine). Riporto un paio di dichiarazioni dei medici dell’ospedale psichiatrico Fann, Dakar. Si noti che l’ospedale psichiatrico accoglie, in Africa occidentale, solo i semioccidentalizzati, non gli appartenenti a gruppi tribali. Il dottor Collomb sostiene che, comunque tra i suoi malati, non si ha nulla di rapportabile alla schizofrenia. Si hanno stati “strani” (états éstranges) non sintomatizzabili all’occidentale, e ci troviamo di fronte a realtà completamente estranee, alle quali ci riesce assai difficile appiccare l’etichetta di follia.
Voglio dire, con questo, che la follia dell’occidente è una condizione venuta in essere nell’ambito di una particolare cultura, così come non si dà isteria al di fuori dell’ambito cristiano. La follia è la convergenza, il matrimonio del matto e dello psichiatra. Un matrimonio che comporta aspetti positivi e negativi. Positivo è lo statuto di malato che è andato man mano affermandosi e che evita in parte al matto i maltrattamenti cui era sottoposto un tempo, la segregazione sei-settecentesca, il Grand Renfermement così ben raccontato da Foucault. Negativo è lo stesso statuto di malato, il quale è sottoposto a cure con l’intento di provocare crisi terapeutiche (elettroshock, bagni freddi, inoculazione di germi malarici ecc.), cure applicate alla cieca perché si ignora eziologia, diagnosi, terapia, e che si riducono oggi, al ritorno all’antico tentativo di provocare un’alterazione dell’ambiente umorale mediante psicofarmaci. Positiva è la moderna problematica occidentale sulla follia, che induce, bene o male, a trattare il matto con un certo rispetto (il matto cittadino); ma negativa è la problematica stessa, in quanto troppo facilmente ideologizzabile, come nei recenti casi delle varie antipsichiatrie o dei riferimenti psichiatrici con conseguenti leggi ad hoc. Decisamente negativa, ancora, è la visione nera, notturna, della follia, intesa come mondo di sofferenza di cui si deve liberare il matto. È una visione che oserei definire leninista della presunta malattia mentale: bisogna liberare la società dal capitalismo anche se la società non lo desidera affatto, essendo che il capitalismo è per definizione alienazione e sofferenza. Allo stesso modo, per definizione, secondo la psichiatria, follia è sofferenza. Ma chi può dimostrare che il matto voglia uscire dalla mattana, a meno di non urtare contro la disapprovazione sociale che un po’ alla volta gli entra sotto la pelle? Chi può sostenere, in buona fede, che il melanconico voglia abbandonare il suo stato, che l’anoressico mentale riferisca la “norma” della buona alimentazione? Ma lo psichiatra, agente incaricato dalla società di provvedere alla remissione del malato di mente nella norma, la sa più lunga di questi. Sa che il malato di mente è sofferente, e che va curato, cioè redento. Il medico ha infatti l’ippocratico dovere di liberare il malato dalla sofferenza.
Oltremodo negativo, infine è il fatto che l’Occidente imponga la sua visione della follia, quella della dis-norma da riportare alla norma, ad ambiti che ignorano le contrapposizione. D’altronde, questa rientra nel contesto della imposizione del modello occidentale al mondo intero, nel contesto della colonizzazione del Sud a opera del Nord, che è il proseguimento della colonizzazione della campagna a opera della città.
Ed eccoci ricondotti al punto di partenza: follia, figlia della città, e psichiatria manifestazione urbana. La città murata che, dilatandosi rinserra il mondo nelle mura della definizione della ratio.
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