All rights reserved © Ivan Dall’Ara
Rialto. Sei.
L’eterno senza futuro
Il cielo è un foglio candito, azzurro croccante.
Lui lo succhia avidamente, mentre Lei considera la spuma del mare sul pane imburrato di marmellata: è l’attimo impercettibile prima del ritrarsi dell’onda, ma Lei già ne intuisce lo stacco; l’arena è ancora imbevuta e orlata di schiuma, ma il tempo ripiega all’indietro, lasciando il lido che ormai non riesce più a toccare.
L’ombra del Duomo davanti al caffè, allungandosi a ritroso, disegna sul lastricato l’enorme sagoma della Montagna. Quando la porta del tempio non segnava il confine tra il qui e l’Altrove, la spalla inerpicata di Lui sapeva di sasso e di vento. Le guglie aguzze ne trattengono ancora il ricordo, la rincorsa che focalizza d’istinto l’odore di foglia. Le mani calve ancora non erano giunte a preghiera quando l’eterno era senza futuro. Nulla vi era da chiedere quando la parola non sapeva dire, che era Lei a bagnare la Luna mentre rischiara, come una carezza crinita, la piana laggiù infondo, dove il giallo della fioritura ondula piano, facendosi appena intuire nell’aspergersi dell’incenso.
Poco lontano, in via Rialto, due amanti stanno per assistere al ripetersi di quell’incomprensibile miracolo.
Un raggio di luce, filtrato dalle persiane, illumina il sottile pulviscolo in cui fluttuano, leggeri, gomitoli di lana, intrisi di spilli, che Lui ascolta uscire dalla bocca di Lei. I suoi capelli odorano di lampi.
“La libertà” – Lei gli sussurra fissando quel turbinio corpuscolare – “sta tutta nella possibilità della deviazione“: nell’occasione data a quegli atomi infinitesimali di cambiare costantemente direzione rispetto al determinismo della propria linea retta. Nel caos delle infinite combinazioni, i frammenti dispersi nella memoria, si ricompongono nel battito d’ali di una farfalla, così che anche lo spazio, in quella luce soffiata, collassa al centro del proprio asse, in una densa goccia di latte e miele, un’orbita parallela, dove l’appendiabiti accanto all’ingresso è la riva del fiume, in cui, abbandonati i vestiti, sono trascinati, felici e dimentichi, i volti di tutti gli amati sconosciuti della terra.
Nello stesso istante, seduto al caffè, Luis Cernuda annota: “Addio dolci amanti invisibili, mi spiace non aver dormito nelle vostre braccia”.