Babanzila – di Francesco Saba Sardi
Tratto da: Babanzila che visse con il gorilla, Poco fa, altrove, Baroni, Viareggio,2003; Archivio Saba Sardi
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Si avventurò tra i cosiddetti selvaggi. Non lo erano.
Hanno l’aria infelice i capibara
sulle rive del fiume a Cuiabá.
Le tartarughe covano il brodino
sulle spiagge del mare a Ceará.
Appena oltre il Sergipe c’è Penedo
ma bisogna dormire a Corubá.
Ha certo un gran bel nome Diamantina
ma il battello fa tappa a Gurupá.
L’animo pesa sotto foschi cieli
nerincisi da lugubri urubú.
Hanno occhi prunelli i brasiliani
con cui fissare luoghi senza requie
e se reduce un senso si profila
uscendo da oltre un muro senza luogo
è solo per svelare la rovina
dei fiumi senza meta né ragione
liquido fango visti da vicino
lucide acque se rammemorati.
Prossimo allora è il termine del viaggio
e si è spenta la brace del brazil.
Voltatosi a guardare, vide
Rospi, rospetti belli
Sapos, sapinhos lindos
raccolti a un fil di luce:
si sa, mangiate insetti,
ah, la vita è feroce.
Se passa un ara-ara
E un bacio a tutti dà
un torneo di capibara
a Porto Joffre si avrà.
Fu detenuto e fu reduce
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Lazzaro torna e ‘l bel tempo rimena
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Mi sono guardato attorno
ho ritrovato ombra
gli anni minuziosi
i passi sempre uguali
le tarme che sfarinano
il mio cappotto di gelo
l’intangibile nostro cimitero
ho ritrovato la cava
che salivo in processione
nella pioggia ho annusato
le antiche rape
ed ho provato invano
a suscitare pupille accese
sopra scheletri secchi
di reticolati
ma sono vecchio
fili di paglia attaccaticci
penduli alle calze
ma sono stanco
poco mi resta ormai
per abbracciarti
e togliermi di mezzo
senza errori
e chiudere il rimpianto
in un boccale
insopportabile peso
budellare fardello
sarò pura indecenza.
Richiamato dalle sue stesse parole, deciso a dire la sua, attese tra le quinte.
Entra il Secolo in veste de
L’Antialchemico
e pronuncia la seguente
Cicalata
“Allo stratega invitto, peana di vittoria,
quale colui che da sventura ci ha riscattati, e grazie,
Divino, ti rendiamo, noi cittadini,
poi che tu hai chiuso il tempio del bifronte”.
“O figlie del mio popolo, altogridate con voce contenta;
agghindatevi con magnifici ornamenti”.
E tutti in coro: “Per noi, incolto il suolo
edere rampicanti ovunque effonderà
col baccaro e, commista con il ridente acanto, colocasia.
Da sé le poppe turgide all’ovile le capre porteranno,
eccetera”. Il resto ci è ben noto.
Il pargolo alla madre non sorrise.
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Cui seguono:
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Lamento antico
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Che sarà mai di noi?
Che sarà degli stadi, dei giardini,
dei portici, dei filosofi, dei fiumi?
Buone ombre, ombe bruone, venite, ombre, buombe.
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Lamento intermedio
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Segnori, per Dio ogni uom m’intenda
D’una molto bella leggenda,
Che fu tratta dalla scrittura
Perocch’ell’era cosa oscura.
La gran partita della jente
La scrittura non intende neente.
Perciocch’io voglio ch’ogne uomo intenda,
Peccatore e peccatrice,
E sappian bene ciò ch’ella dice.
SDCPLLPPE, questo dice,
e impazza per le piazze, e benedice.
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Proposizione
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Si può lasciare la presa, cessare
dalle storie, dalle scienze, dai domini.
Indulgere all’ombelico, al BB, all’appena appena,
Starsi contenti e lieti nella stia,
sbigottiti, balordi sulla fimbria
aggirarsi dei punti e delle rette.
Ma di fatto, solenne gerotrofio,
cessa il bel gioco, paga penitenza,
chi chieda che colore ha le geenna.
Ci sono. Non ci sono. Un dato,
ciò che si è dato, ciò che si è ripreso.
Un cancro ti sorprende, e dolce, piano,
verbalizza nel suo processo il mondo.
Nell’Uovo, nella camera nuziale,
tra Oro e Argento
si consumi connubio e tradimento.
Appena fecondata, nera Vergine,
grigia, e poi verde, e poi ancora gialla,
e all’improvviso, ah, bianca come cigno,
la Vergine partoriente arcobaleni.
Yang che s’insura, yin che si dilata:
una lunga ferita purulenta reca l’impronta della strigea cera.
Il negro Capro, remora dell’Anno,
perenne inverno, finge metamorfosi:
declina l’impostura sotto forma di catene di a, di e, di o.
Schiere di negromanti ciabattoni
maliziosi pronunciano cataloghi
che dicono matrice della Genesi,
ciò ch’è frode, apagoge, simonia.
E bi, e ba, e bu, orfici grumi,
e bu, e ba, e bi, ctonie scemenze,
ammissibili solo esclamazioni,
additivo ausiliario al palpitare
del cuore di se stesso testimone.
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Atto di fede, comu-nione, e via!
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Uomo dei segni e dei numeri,
uomo che interpreti l’ordine,
Ariele dalla chiara scrittura,
il tuo soffio amico ci assista
nei crepuscoli di grande mutamento.
I tempi sono forti, è l’ora, è l’ora!
Reduci dall’esilio luminoso,
remoto l’uragano che imperversa,
serbaci tu la via, o Maestro,
nel lusco della grande confusione
(gravano sulle nostre magre spalle
le campate, le spinte della storia),
strada d’esilio, ponte d’alleanza,
o lievito dei popoli, ché il mondo
è bello, e stanco l’avvenire.
Ho detto stanco? Ehm, voglio dire santo.
Faccio un inchino a tutti, e mi ritiro.
Non è stato un bel tiro?
Le Erinni: poca cosa, appetto al gusto
di tirare la coda alle comete.
Ciò detto, Babanzila concluse di averne abbastanza.
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Conscrivenzione
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Delle molte mie vite
tutte indefinite
una ne ho avuta in sorte
tenace più d’ogni altra
tenace come i passi degli umani.
Per anni
sono stato
parlato.
(Una strada che s’accompagna
ai miei passi d’asfalto.)
Mi furono concesse
soste saggi chiacchiere
ma sempre per riportarmi
con le elastiche fruste
ai noti avelli.
Corsero avvisi di giorni transitori
pellegrinaggio iconoclasta
infrante le monomotapie una volta per sempre
un marinare mostruoso salatissimo senz’ordine.
Indi il ritorno.
Al solito geroglifico
a recare nottole a Piattole
luogo di notai calato
in un congegno quattrocinquecentesconovecento.
Un ricordino una maschera o conchiglia
da deporre con fiori sugli avelli
da cui ti svelli,
voce che me parla.
Persuaso che, in fin dei conti, fosse tutta da ridere, promulgò
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Absit
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E quando sarò morto
rimettetemi gli occhiali
lasciate che la mosca
ronzi nella mia grotta
aperta a venti e vermi
dietro la rosta del baffo ancora vivo.
Le lenti nel riflesso
il mondo coglieranno
il nome vi diranno
di pieni vuoti ombre.
Ricordate che vissi
tanto che ne morii.
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