All rights reserved © Mariangela Venezia
Il mio cuore chilometra, la lancetta rossa trema a velocità sostenuta, il marchingegno nero coi numeri scatta perentorio e assoluto, a ogni chilometro in più. Io sussulto, è il segnale, che si fermino le danze, niente più guizzi di coriandoli, parabole filanti, scrosci d’allegrezza, che lei scolori, sulle labbra tremori già spenti di suono.
Impallidisci sagoma di comete urticanti, disallacciati dal mio tocco, siamo al chilometro 103. Troppo per amarci.
Ah mia bella assonnata dalle frenesie improvvise, gragnola di immagini argute e appetiti fumanti, tu piena di sale e colline d’incenso, tu, incontrata in una notte intenta alle fiamme e alle onde, persa, irrimediabilmente abbandonata al chilometro 210, tic toc, il numerino rosso parla a una distanza che odora di strepiti e sospiri, amara di un ardore che discende all’allungarsi delle vie. Ogni nuovo paese è un ostacolo, l’ennesima occasione di infrangerci nella stretta, lo spauracchio di un silenzio che succede e incede assassino a fermarmi il cuore.
Reticoli di strade, sentieri, viottoli, calli, budelli, immensità di ombre e sospetti, concorso all’impossibile, castigo e desiderio. Se mi incammino inciampo, avanzo claudicante, refluisco col mio sangue verso luoghi già noti, per nutrire uno spasimo solo e affamare l’assurdo e insensato palpito del chilometro straniero. Puoi raggiungermi tu quassù, a perdere il sudore nelle nebbie, ad ammansirti a una terra di un rosso che imbestia, ma poi, ti riconoscerei, tramutata in roverella, abbarbicata sulle forre?
La geografia è l’unica speranza che il giorno non sbocchi in un addio.
Mi affaccio a scrutare euforbie spinose, mi sporgo furtivo, attendo paziente al chilometro tre. Ho calcolato l’intervallo sostenibile tra una palpitazione e l’altra, assestandomi alla vista di una chioma come omaggio quotidiano. Quello che sopra i dieci chilometri è tormento, intorno ai cinque è sollazzo e ambrosia, l’ardita gara a conquistare i rintocchi del meccanismo che porto in petto la vincerà colei di cui sento il fiato se respiro l’intorno, ché il morso si tramuti in facezia, che si perda sullo sfondo il contatto senza rassembro.
Più di mille battiti impazziti, di oscuramenti, barlumi e presagi, più del sentire assoluto e indistinto che travalica misure e convenienze, più dello spasmo di una carezza senza volto, più di tutto può l’adiacenza. L’amore è luogo, l’incontro è latitudine.