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Dal sogno della Pleiade Maia e del gigante Orione sgorga Macistina in un infinito amplesso intergalattico, sotto lo sguardo rosso del Toro incandescente. Corre veloce bambina stellare, inseguita dallo Scorpione. L’insetto argentato interpella ogni nana rossa, asteroide, remoto pianeta a stento intermittente, scagliato lontano dal sistema Solare. Sfrega le chele, luccicanti di piccole stelle. Saltando di buco nero in buco nero, scivolando tra pulviscoli amaranto Macistina lancia in alto frammenti di cielo e gioca a riprenderli, fa di Sirio, Canopo e la Luna una collana iridescente in un filo di neutroni infinitesimali.
È Saliga, fata solitaria delle montagne spaziali in serena solitudine tra i vasti silenzi, è energia cosmica e forza invisibile di onde elettromagnetiche, è esplosione di supernove, al centro della pupilla.
Macistina e Cassiopea si ricorrono tra intricati sentieri di galassie, si abbeverano alle succose fonti della via Lattea godendo del siero tiepido e soffice dell’Universo. Bevendo bevendo risalgono l’anello, girandola vorticosa di intermittenze e panna, che buono che gusto il latte spaziale, come si scivola bene su questa spirale.
Macistina, infilandosi nello spazio tra le meteore prende velocità, si attorciglia, si gira roteando nell’antigravità e s’incanta davanti a un pianeta mai visto, di un blu liquido e odoroso di sale, con punte di smeraldo e riflessi di giallo di Marte, profumi ignoti agli abissi celesti, e suoni argentini nel silenzio siderale. Macistina si lascia cadere, cullata dal buio di mille atmosfere attraversa dormendo gli intervalli contratti del tempo, se avesse parole sarebbero ellissi, se avesse colori sarebbero tutti.
Macistina si sveglia dentro una palla, Cassiopea accende asteroidi dal piccolo carro e la bambina spaziale galleggia sul mare. Respirando solleva le onde, se alza un braccio la luce fa ombre, del gigante Orione Macistina ha le spalle, il corpo coriaceo e le membra di marmo, di Maia ha i capelli, tessuti di fili celesti, l’iride e le ciglia sono dell’Universo. È atavica e lontana la forza del suo incedere, camminando il suolo singhiozza e zampilla, Macistina tiene una roccia in punta di naso e sradica pini marittimi serrando la bocca e gonfiando le gote. È leggero e minuscolo questo pianeta, fragile al soffio come un gruppo di stelle gemelle, l’impronta diventa cratere, torrente la lacrima e Macistina, agglomerato di materia galattica sente il ritmo del nucleo che batte, linfa profonda e connessioni ignote, ogni orbita coinvolge innumerevoli corpi, è energia celeste il continuo girare, ogni libero moto è una rivoluzione.
A grandi balzi Macistina avanza, bambina senza gravità, spiando nei crateri dei vulcani, annusando laghi d’argento sulle cime dei monti, sospinta dalla materia terrestre, indulgente e lievissima. Sorella del pulviscolo e delle aquile, le vene pulsanti di lava elettrica, la terra respira la bambina, la bambina sospira la terra.
Andando incontra ignoti sembianti, trascinano, sorreggono, trasportano, forme rotonde paion quasi, talmente ricurve che i nasi in punta hanno il color dell’argilla. Immobili, in uno stato di morte apparente, masticano ramoscelli di ginepro per tenersi in vita, vittime di una visidaja infinita. Viene l’aquila, a tentare il risveglio. Rotea tre volte intorno ai bozzoli cangianti, grida. Una figura, dal volto di talpa e le zampe di ragno, tesse. Dalla bocca fili di metallo lucente, sul capo un groviglio di lunghi filamenti di luna calante. Sputa e intreccia, intreccia e sputa infinite pagliuzze trasparenti e leggere, che sognanti raggiungono le altre figure, si attorcigliano a ogni caviglia, risalgono melliflue i polpacci, accarezzando cosce e ginocchia circondano ammiccanti ombelichi e fianchi. Carezza, piuma impercettibile e rara, i morti viventi dondolano il capo al fruscio della bava di ragno, si voltano le spalle, si coprono gli occhi, un mare sterminato di crisalidi dolenti.
Macistina inciampa e si impiglia nell’intoppo del filo, nel nero remoto dell’universo si vaga leggeri ancorati soltanto al respiro del cosmo. Si muove guardinga, «vi posso sbrogliare dall’intrigo insensato, il talporagno costruisce prigioni sibilanti, voltatevi guardate i vostri legacci, al tocco si spezzano, potete volare, la gravità si sospende scordandosi il peso».
«Ma di che parli bizzarra creatura», si leva un coro di voci indignate, «di quali legacci, di quali catene, non vediamo nulla, non sentiamo alcun peso. Il talporagno intona sonetti, danziamo noi tutti al ritmo di un verso, aperto è il respiro, leggiadra la parola, possiamo mutare, sparire, intonare, cantare melodie serrando la bocca». Di spalle l’un l’altro i gobbi all’unisono, inchiodati alla terra non sentono nulla, la libertà è il terzo atto di una messiscena mediocre, rappresentata anch’essa da attori in disgrazia. Il veleno della calunnia è vino che inebria, Macistina soltanto ne sente il tanfo, la scaccia il talporagno con gesto stizzito, che nessuno distrugga le catene invisibili, che l’Universo invii altrove i suoi messi. Demiurgo è il talporagno della beata asfissia.