Alfonso Frasnedi/ Tenue come un respiro

Tratto da Alfonso Frasnedi, La galleria del tempo, Spirali/Vel, 2011
©Archivio Saba Sardi

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©Alfonso Frasnedi, Tenue come un respiro, matita e acquerello, 2005

©Alfonso Frasnedi, Tenue come un respiro, matita e acquerello, 2005

©Alfonso Frasnedi, Tenue come un respiro, matita e acquerello su cartoncino, 2003

©Alfonso Frasnedi, Tenue come un respiro, matita e acquerello su cartoncino, 2003

La pittura, da sempre.

Sì, la pittura è da sempre. Da quando c’è l’uomo. Orna sassi da quando l’uomo ha distinto sasso da sasso, qualcuno privilegiandolo: aveva uno stile, esprimeva il riconoscimento della parola. Il colore è sempre apparso sulle guance: strisce di caccia, per accompagnare la collana di ossi, la sacca da caccia di stomaco di ippopotamo, la cintura di cauri alla vita. Sulla lancia, appuntita col fuoco, segni, certo, ma colore, tonalità diversa dal legno che la regge.

L’immagine è una parola che si presta a molti equivoci, ha tutti i nessi referenziali possibili, dal sempre all’oggi è andata moltiplicandosi per generazione spontanea: una valanga, un eccesso di insignificanza. Tutto è immagine, ma appunto simulacro, imitazione, frammenti di specchio. Non mi sembra però che la striscia di colore tracciata sulla guancia rappresenti alcunché. L’immagine si forma prima di se stessa, del suo tracciato. E il tracciato è perché l’immagine sia una rivelazione.

Dal sempre in poi, l’arte visiva ha avuto carattere universale. Inconcepibile la sepoltura paleolitica che non sia resa immagine dal rosso dell’ocra. Di per sé, senza bisogno di rimandi, di indicazione di eventi e oggetti aventi lo scopo di renderla notoria, di inserirla nel vortice della comunicazione, del dire. Per farne mera sottolineatura, richiamo ad altro, punto esclamativo. E allora imporsi quale significante, indicatore, segnale di segnali, fiancata di autobus, pennacchio in cima all’elmo. Per incutere significati.

Quell’attività che è detta arte visiva appare, c’è, ma si manifesta soltanto a patto che qualcosa d’altro la renda visibile. È ridotta all’esigenza comunicativa. È un apparato che si somma ad altri apparati, fatti di simulacri, che insieme compongono il troppo pieno della memoria priva degli indispensabili vuoti, quelli che si inseriscono nel continuum e sono i poroi del rivelarsi delle emozioni. Del nostro corpo di sempre, dunque. Quello che produce le immagini oniriche che inseriscono una discontinuità nelle aspettative omologate. Verrà l’imprevisto?

La pittura del sempre mostrava? Ma la grotta paleolitica era buia, le escrescenze e le cavità venivano ornate senza bisogno di lumi. Par cœur. O la pittura accendeva le cecità dei partecipanti, indicando ciò che diventava perché non era mai stato?

Che la pittura del sempre fosse il medium, diremmo oggi, che rendeva possibile ma certamente nulla riproduceva, e faceva partecipe colui che assisteva – direttamente o per interposta narrazione – facendolo diventare cavità, protuberanza, striscia di caccia, segno?

Premesso che dal sempre non solo la pittura, ma l’arte, la sua necessità e impellenza (in tutte le accezioni della scrittura) ha corso, sarà opportuno distinguere, nell’oggi di questo sempre, l’invenzione di un sentimento, qualcosa di più profondo, di più commovente, di più incisivo di una sensazione. Ovvero, se è ancora possibile accedere a quell’abbandono, a quella Gelassenheit di cui Heidegger, che è poi la poiesis nel suo farsi: l’atto mitico in divenire. Uscendo allora dalla trappola dei rimandi, degli accenni a questo o a quello, altrettante modalità di sottrarsi agli obblighi comminati già in epoca faraonica ai produttori di menekh e, oggi, ai ripetitori di stereotipi del «questo significa che…». E dunque delle interpretazioni (alle cattive traduzioni) in sociologismi, critiche, spiegazioni, e quant’altre siano le parafernalia di una visione puramente tecnologica, consistente nel ridurre l’invenzione alla fattuità, all’equiparazione del dipinto alle dimensioni, al supporto, agli artifici della sua compilazione. E dico compilazione, perché allora la pittura si accontenta di essere letteratura.

Donde la tentazione, di cui sopra, a restare, naviglio saldamente attraccato, al cordone ombelicale del significato, del si può fare, del lecito, del concesso dalla Normalina. Ci si circonda così di cose viste, offerte alla percezione, e ci si vietano le immagini nell’accezione dinanzi indicata, sostituite da cognizioni, da rimandi, da nozioni. E dall’aspirazione al bello, concetto sul quale mi soffermerò più avanti.

Ecco perché Frasnedi doveva licenziare il disegno, falsariga ideologica, sostrato delle intenzioni eteronorme, impalcatura che impedisce il freeclambing. Ecco perché doveva fare propria l’esclusività del colore. Avendo intuito che il dipingere avviene in ciò che struttura non è ancora, e che mai diventerà struttura, sempre che non ci si obblighi a riconoscerla nell’accertamento o successione o convergenza o attrazione reciproca dei colori. Tra i quali si instaurerebbe insomma una gerarchia del riconoscibile.

Il colore è certo sostanza. Messa sulla superficie del medium mediante strumenti altrettanto sostanziali. Ma il colore non è lo spazio nel quale viene collocato. Non si inserisce in una successione, in un prima, un dopo, una serie di intermediazioni, quelli detti passaggi cromatici. Il colore è nel presente, ma per ciò stesso è nel sempre. È l’invento, non il fattuato. È Parola, una delle rivelazioni della Parola a se stessa, che non è sorgente di parole, ma appunto rivelazione che si manifesta a se stessa.

Per questo il colore È la pittura. Abbandonarsi, sich gelassen al colore, comporta la rinuncia, la spontanea cessazione, delle maschere che l’imposizione dei riferimenti hanno sovrapposto alla nudità del poiein. Tolte le quali, resta la visione nella sua essenzialità e povertà. Nel suo nulla e tutto. Che è quanto dire il mitico – ciò che viene, che è venuto, prima degli angeli, dei sacerdoti, dei sovrani. Di quando il nostro corpo era ben presente, ed era forma, struttura, movimento, colore.[…]

Francesco Saba Sardi

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