Ciao. L’incontro. Legame e slegame
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Copertina di Lupo Borgonovo
“Chi sei tu che avvolto nella notte inciampi così nei miei pensieri?”(Shakespeare)
Entrare in scena, uscire di scena. Chi, cosa, quando? Capita, accade, avviene. Ma quale sarebbe il luogo della scena nella quale qualcosa avviene? La presunzione ontologica nega l’azzardo, la contingenza, l’occorrenza, e interviene per assumere, fagocitare l’avvenimento e l’evento, quel che d’ignoto e imprevedibile può accadere. La finalizzazione della relazione che asseconda l’organizzazione della logico discorsività chiamata sistema, sia proibitivo che prescrittivo, nega l’incontro, lo riconduce nell’ambito della comunicazione sociale codificata assumendolo come discorso comune, nella riduzione a un modello di presunta condivisione unificante. Luogo comune, senso comune spazio temporale, il “si fa così”, “ci si comporta così”, il “posto giusto al momento giusto” “il risultato garantito”. Quel che capita allora è il prevedibile, il probabile, relegato all’ambito del noto, del già avvenuto, il passato che si riproduce nel futuro, il già saputo, il comprovato, nella continuità della sequenza temporale, proprio perché nulla accada, affinché all’apertura sia anteposta la rassegnata chiusura: ovvero l’ovvio, il predestinato, il genealogicamente consequenziale e riproducibile nella sua apparente rassicurazione dello storicamente consolidato per convenzione. Il mitema incontro che i greci antichi chiamavano tyche, in questa versione volge il suo significato verso il fato e la fatalità anziché rimanere parola che indica la poiesis, il phanes, l’apertura, l’improbabile della combinatoria che si dà nell’istante, qui ed ora, e che inaugura un’altra scena. L’ininscenabile ignoto. Il corpo e la scena non sono teatralmente rappresentabili, la voce li situa sempre in un altrove irreperibile. E non si definiscono in un luogo deputo dedito all’attorialità di costume, rimangono irrelati; nell’incontro ciò che si lega e ciò che si slega risente dell’indecidibile, diversamente, il codice sacrifica il gioco leggero e libero della parola a favore del conformismo rinunciatario e rassegnato senza evento e senza avvenire. Senza invenzione né arte.
L’incontro avviene quando la continuità discorsiva è sospesa, accade specificamente rispetto al contingente non rispetto all’impossibile che risentirebbe di una prefigurazione pregiudiziale e pregiudicante. Quando è inesistente il desiderio, oltre il desiderio, l’azzardo nel caso decide dell’incontro mettendo in scacco il principio causale.
Con chi avviene l’incontro? Con chi esige la lealtà e la generosità, l’Humanitas. Con chi si situa nella condizione dell’osare e dell’umiltà. Con un imponderabile “non so” entro un appuntamento. Entro un ritmo. Nessun incontro avviene con l’omertà, con l’obiettivamento, con l’utilitarismo, con la persuasione, la confessione, la salvezza, con la protezione di stampo materno.
Dall’incontro la storia trova una via inedita per raccontarsi situandosi nell’atemporalità del contingente. Non si tratta di circoscrivere l’incontro come fra uomini e donne, per affari o per viaggi, l’incontro si situa dove qualcosa accade e trova un ritmo.
L’incontro avviene in quel che i matematici chiamano l’intervallo, detto altrimenti dove il tempo non c’è essendo una nostra invenzione, fra l’impossibile della rimozione, cioè l’incodificabille e l’impossibile della resistenza, cioè l’indecidibile. In questo intervallo c’è l’incontro.
Come accade che l’incontro compia il miracolo? Con la narrazione e non può fare a meno del “forse” e di “Altro” che intervengono. Nessuna rappresentazione è data di ciò che si fa, non si rappresenta l’avvenimento, né tanto meno l’evento, l’Altro, il fortuito. Dall’azzardo al caso, alla peripezia, la contingenza non è ciò che può accadere, ma è ciò per cui qualcosa accade, fra l’incodificabile e l’indecidibile. Proprietà del racconto, il lancio del dado. Il racconto è per via di un abuso di quanto è ritenuto disposto storicisticamente come accrocchio di reliquie da venerare. La memoria è tale non tanto quando viene sancita bensì quando viene misletta e sottratta a Cronos, e allora il sorprendente tesse una nuova impresa di vita.
La contingenza, cum, il cum conferma l’altro dal tempo anziché l’insieme, che non è l’ordine sociale, che dipende dall’ordine necessario, possibile, probabile, l’oridinario edificato del fantasma di morte, di fine del tempo e delle cose. La letteralizzazione mortificante. La contingenza per cui qualcosa accade, ma che né può né non può accadere, è una faccenda di occorrenza, di quel che si dispone all’istante e non si tratta di possibilità né di probabilità né, tanto meno, di necessità metafisicamente fondata, quindi preesistente all’atto stesso della parola in cui l’incontro avviene. La contingenza presa nell’ordinalità è il luogo comune umano, quindi a “chi tocca”, a “chi capita”, “cosa mi succede”, “cosa ti succede a chi succede” fino allo stupore, che è la conseguenza della rappresentazione della padronanza.
La contingenza esclude lo stupore, il possibile e l’impossibile, senza più il principio di esclusione, da cui consegue il fare nella speranza della salvezza perchè anch’essa sarebbe un’idea di padronanza sulla contingenza, sicché l’antitodo alla trasposizione, propria della memoria in atto nell’intervallo, è l’idea stessa di ritorno dell’identico, di quel che già si presumeva di conoscere in partenza. Nell’atto nulla torna. Il fare è la struttura dell’altro, ovvero la struttura propria della contingenza.
Senza il “forse”, il “non so”, nessun incontro, nessun ascolto. Dimenticarsi di sé, non avere nessuna immagine di sé, dunque non farsi soggetto della relazione. L’atemporale, la contingenza, non già che cosa ho, che cosa non ho, chi sono e chi non sono, non già ciò che trae verso l’ontologia della miseria e della povertà, non già chi sono: uomo donna, moltitudine, popolo, copia, identità, vivo, morto. Dimentici, nell’intervallo, dove la cronologia del tempo non c’è più, in quel caso cessa ogni finalismo strumentale e si dà l’incontro che va a tono, l’apparire dell’antica mania poietiké: il sorprendente inaugurale di altri esiti. La teleologia del fare è assurda e il finalismo pragmatico pure, tranne ripetere un rituale scontato in partenza.
Il ritmo, l’appuntamento, il caso, intervengono facendo, dispongono l’armonia, non già quella programmata in uno spartito. Costruiscono nuova musica. Nessuno è escluso o trova la via preclusa. Il principio di esclusione fissa per ognuno, l’idea della fine del tempo.
L’hic et nunc è ciò per cui qualcosa accade, l’avvenimento, l’evento, ma nulla accade senza il phanes, la poesia, la voce. Ma arrangiarsi, accomodarsi, rassegarsi, sono significazioni del soggetto, dell’edificazione luogocentrica del tempo in cui le cose devono accadere secondo normalina, sono segni del conflitto, della polemica, segni di osservanza al canone comune. Senza il canone comune l’incontro avviene nella combinazione della differenza.
Ciao in incontro, ciao per accomiatarsi, legame e slegame, un arrivederci immancabile all’appuntamento che trae a narrare altri avvenimenti.