Francesco Manetti. Conversazione con Lupo Borgonovo

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Fotografie ©Archivio Francesco Manetti

Francesco Manetti ©Archivio Francesco Manetti

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 “A” ha sviluppato un metodo di osservazione raffinatissimo. Le sue descrizioni sono minuziose. Ha la capacità di umanizzare e di entrare in empatia con tutto, anche con la maniglia di una porta. Il sole che guarda scendere e scomparire è uguale alla sua immagine quando scompare dalla superficie dello specchio. Quando guarda il sole diventa il sole. Quando guarda le anatre dal bianco collare di piume, diventa un’ anatra.

“B” ha creato una scatola, un parallelepipedo con un’entrata su un lato e un’uscita sull’altro. Il breve viaggio all’interno di questo spazio permette di uscire essendo qualcuno o qualcosa d’altro. La magia ha la durata del gusto di una cicca in bocca. Sono entrato in questa scatola e ne sono uscito manico di una tazzina di caffè. Non che mi fossi trasformato in un oggetto, rimanevo da fuori l’essere umano che sono, ma il mio sentire era da manico di tazzina. (Lupo Borgonovo)

 

Francesco Manetti ©Archivio Francesco Manetti
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Lupo Borgonovo Un essere umano guarda la realtà caricandola di grande empatia, come se avesse capacità di entrare in contatto con gli oggetti e le cose della natura, come se fossero delle parti di sè. Ha una gamma di sentimenti sempre aperta che si attiva con l’incontro con qualsiasi cosa. E’ come un essere senza pelle.

Possiede una capacità di osservazione molto elevata, grazie alla quale costituisce un suo personalissimo archivio di suggestioni alle quali attinge per riviverle. Passa quindi attraverso un luogo che è memoria visiva, fisica, sensoriale: questo luogo potrebbe essere visualizzato come un gabinetto di uno scienziato o una scatola in cui entrare come te stesso e poi uscire come qualcun altro.

Mi chiedo e ti chiedo se un regista e un attore siano grandi osservatori dell’umanità e delle cose, e se osservandole, fantasmatizzano un racconto che interpretano sulla scena, consapevoli di trovarsi in una rappresentazione.

 

Francesco Manetti Credo che dovremmo estendere la domanda anche alla figura del drammaturgo. In realtà è a questa figura che viene richiesto in modo fondamentale di essere un osservatore della realtà, di saper cogliere gli aspetti più significativi del tempo in cui viviamo e renderli esemplificativi di un intero mondo. Compito del drammaturgo è quello di creare metonimie, di provare cioè a raccontare il mondo attraverso la narrazione di una sua parte.

Il Regista arriva in seguito, stimolato da quella drammaturgia, colpito a volte anche solo da un elemento, da un personaggio, da un’atmosfera che entra in contatto con il suo modo di “sentire” le cose e l’umanità nel cui seno abita. Così inizia un percorso che potremmo definire a ritroso: nasce l’esigenza registica di riportare quella parte ad essere un tutto, ad allargarsi per poter parlare al mondo del mondo. Ed ultimo ad entrare in gioco è proprio l’attore. A lui viene richiesto di farsi fantasma, di essere un medium tra mondi diversi, tra il sentire del regista e la visione del drammaturgo, tra questi e il sentire di ogni singolo spettatore. Per fare questo non credo che all’attore sia necessario essere un grande osservatore delle cose, direi piuttosto che sia necessario sapersi “fare cosa”.  Orazio Costa, maestro di tanti maestri, chiamava questa abilità tutta umana capacità mimesica, quel talento di farsi fisicamente altro da sé, acqua nell’acqua e vento nel vento. E’ questa capacità che in fondo ha permesso ad un animale privo di qualsiasi talento specialistico di arrivare in vetta alla catena dell’evoluzione. Il lavoro principale di un attore su se stesso è di potenziare questa dote, che io definisco SENSABILITA’, rendendo “abili il propri sensi,” lavorando ogni giorno a togliere le corazze che ci impediscono di entrare in empatia con tutto quello che ci circonda, materiale e non: emozioni, paesaggi, fisicità, geometrie, rumori, colori, idee o caratteri. Il lavoro dell’attore non è intellettuale, ma fisico, sempre e comunque, e più filtri tra il proprio corpo e il mondo riesce ad eliminare, più la resa scenica sarà efficace. Compito della mente è di fare da guida ai sensi, di scegliere consapevolmente e crudelmente la direzione, di intuire ad ogni replica cosa è meglio accogliere, e cosa rendere segno pubblico dei molteplici movimenti dell’intimità. Un atleta del cuore, così Antonin Artaud definiva l’attore. Molto spesso si pensa che l’attore sulla scena compia un atto di svuotamento, che il tempo scenico sia un tempo in cui emozioni, sentimenti e informazioni trovino la loro occasione di espressione, potremmo dire di sfogo. A me piace pensare, invece, che quello sia un tempo di riempimento: all’inizio entra in scena è appunto un fantasma, un ectoplasma sottile, che attraverso le relazioni con altri fantasmi, attraverso lo sguardo del pubblico, le parole che dice e che riceve, le azioni che tendono i muscoli, acquista sempre più corpo. Per mostrarsi, ormai tutto essere umano tra gli umani, al momento degli applausi.

L.B. Dove sono i tuoi personaggi quando non vanno in scena?

F. M. Molti teatranti credono in una specie di paradiso, un mondo parallelo dove i personaggi attendono di essere incarnati da qualcuno che gli somigli il più possibile, che sappia riprodurre la loro voce e i loro gesti.

Io credo che un personaggio sia un artificio letterario, fatto solo di parole scritte, di indicazioni da agire, di accenni ad una vita che non è mai stata vissuta. L’attore prende questo materiale, si cala in quel punto di vista e guarda il mondo attraverso quella lente, senza però cambiare mai i propri occhi, senza rinunciare al proprio giudizio. Quella che chiamano immedesimazione è per me una patologia da curare.

Detto questo, posso dire che da ogni personaggio ho rubato qualcosa da conservare come essere umano, molte volte il personaggio mi ha costretto a fare i conti con qualcosa di mio che non avrei mai affrontato volontariamente. Quello con il personaggio è per me un incontro, a volte amichevole, molto spesso violento e contraddittorio, tra modi di vedere il mondo. Si cammina insieme per un po’, si cerca di comprenderci, di assumere le ragioni dell’altro, forse non tutte, e poi ognuno prende la sua strada, di certo cambiato da quell’incontro. Sinceramente non sono sicuro di sapere dove se ne vanno i miei personaggi quando ci separiamo, non ho mai avuto la curiosità di seguirli, ma sospetto che se ne tornino nelle pagine in cui li ho incontrati, ad attendere che arrivi un altro come me che li porti a fare un giro, modificandoli ancora una volta. A volte mi succede di dover riprendere un personaggio dopo tanto tempo, di ritirarlo fuori dalle sue comode pagine, ed ecco che sempre mi imbatto in mille sorprese: quanto è cambiato da allora, ha uno sguardo più stanco, quei gesti che lo definivano così chiaramente non sono più gli stessi, quelle parole che lo commuovevano fino alle lacrime adesso suonano taglienti e ciniche. Che cosa gli sarà successo chiuso in quel piccolo libro?  Chi lo avrà modificato tanto? Eppure le parole sono le stesse, le azioni pure.

Naturalmente l’unico ad essere diverso sono io, sono i miei occhi diversi ad averlo cambiato, il mio essere più stanco ad averlo stancato. Quindi riprendiamo a camminare per dirci quello che non ci siamo detti, per ascoltare quello che non abbiamo ascoltato.

Francesco Manetti

Francesco Manetti

Francesco Manetti. Cenni biografici

Attore, trainer e regista. Diplomato in recitazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma di cui, dal 1998, è docente di Movimento e combattimento scenico. È golden distinction della British Academy of Dramatic Combat.

Ha insegnato alla National School of Drama di New Delhi, all’A.C.T. di San Francisco, alla Scuola di Stato di San Pietroburgo.

Ha lavorato in Inghilterra, Russia, Stati Uniti, Colombia, Canada, Croazia, India, Israele, Germania, Argentina e Nuova Zelanda. Come Regista ha diretto I Sette a Tebe, Chroma, La Tempesta, Pene d’amor perdute, Racconto d’inverno, Il non nome delle cose, A coup de nez, Cancroregina, Il Borghese gentiluomoRe Lear.
Da anni affianca Antonio Latella come responsabile dei movimenti, nel 2013 entra a far parte della sua compagnia  stabilemobile occupandosi in particolare dell’attività pedagogica;
 è stato diretto da Latella in Don Chisciotte, A. H. e Natale in casa Cupiello