Pointless – di Filippo Parodi
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Abito un gradino che si è scolato il sole, l’assurdo organismo, i prati che battezzo, il panico che ha forme di sedie e ascensori, sinapsi spesso ingiuste, certe sordità nell’animo, i colori troppo vivi nelle fantasie-suicidio, gli occhi tristi dei vitelli, le mie stratificazioni, tutto il vuoto dei consigli, gli attraverso il finestrino, i Gesù abbeverati di fiele e d’aceto, “Aiutatemi a trovare dimore superiori”, ma io alloggio nell’infanzia tanto stretta e imputridita, nell’orgasmo, nell’ascesso, dentro al bar che si accartoccia, nei Non voglio più star male, fra le azzurre trasparenze, in fobie granulose, qui nel pane-madre-lager, tra le dita dei miei piedi così morti in queste scarpe, però pago e risiedo, non rispondo mai al citofono, spioncino e tendine, crucci di una lavatrice, i carillon di Richard Wright, fiori magri di Quasimodo, solitarie stravaganze, discoteche riesumate, medicine, iridescenze, stronze punte degli ombrelli, scivolosità di stelle, sopra sveglie-alveari, sui gradini anche di notte e nel prato anche a febbraio, nello specchio, l’onanismo, nel Dov’è il paradiso?, nella fantasmagoria, i navigli la domenica, trampolini di agonia, i sussulti di platea, le funeste incongruenze, psichedeliche chimere, nei pensieri della gente, il dolore degli amici, nel dissenso del torace, i sorrisi proprio biblici, il tip-tap dei tasti neri e mai più una matita, sì io abito il mio abito ed è una gran fatica, con la porta che ogni giorno si chiude e si riapre, e nessuno che la sfondi, che arrivi a radunarmi, una volte per tutte, finalmente, senza casa