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Copertina di Lupo Borgonovo
La casa è di un bruno rosso scuro. Sprofonda negli occhi di un notturno saturnino. Spietato tramonto di bagliori sottesi, di obliqui inaspettati. Le vedute sono i panorami che si stagliano sulla diagonale della collina. Nessun accessorio decorativo, nessuna consolazione. La sua storia sobria sta impressa in un velo ripiegato dentro un astuccio corneo destinato altrove. Quel che resta è l’essenziale di un’opera di memoria senza monumento. La casa bruno rosso scuro manca a se stessa nel suo svanire. Soffia l’alito sulle nastrature dei nervi. Il suo volto è screpolato, il suo cuore è pulsante, e spalanca la porta sul suo cereo letargo. La porta chiusa si è aperta da sola, non per vittoria o sconfitta sulla viva carne, ma per l’astrazione più audace: adesso può volare nell’oscurità senza turbare il silenzio. Il suo midollo svetta sulla torretta per un monito di pietra che fa risuonare di fronda in fronda gli echi del fiume. Balugina l’alba sulla sua cotta di maglia. L’inutile corazza di bianco niveo che sulla neve male si scorge riverbera implacabile quel chiarore di sangue sparso sulle borchie di ferro. Trasuda d’acre odore di legni lo stridere dei muscoli invulnerabili agli urti dei marosi. Appaiono squame di chiaro fra lo sferzare delle raffiche d’onda, il diurno di un’altra obliquità di fiamma radente, che vede anche nella scarsa luce diffusa dei crepuscoli la piega delle rotte nuove. Avvolta dal movimento, la luce sorprende a pochi passi (un attimo), lo stesso imperituro volgere: ombre di giorno e ombra ancora la notte. E luce. Un clinamento di cui non sappiamo ragione e luogo. Forse oblio, il naufragare di morte del rododendro nella sassaia.
La casa rossa ha il fiume in diagonale al fianco della spalla destra. Lento, da sempre lì, per l’abbandono e per qualsiasi canto, gli alti pioppi svettano oltre il tetto e oltreoceano, la stessa mania di verde che porta con sé il capriolo, il lupo, secondo le intemperanze delle stagioni. Ogni cosa asseconda il tempo. L’ospite, cosa? Chi? Un temporale che si acquieta, una calura spaccatesta a cui segue un refrigerio. Stranieri in casa impropria. Nessuno è a casa propria. Nessuno è sempre stato il dignitario di quegli alloggi di fortuna. Fortuna, già, fortuna. Le pretese sono inutili. Le ricompense immense. Il plauso sbattuto sulle rive e sulle sue derive, davvero non importa, non ha mai importato alcunché . Non subendo fine, l’infinito è lì, si lascia cogliere dalla combinazione nello sgarro dei dadi. Allo sghembo di spalla della casa, indifferente, sempre, sta il fiume, tracimati gli argini, quella volta, quella sola volta che il patriarca mise gli stivali da guascone per temerario affrontare le rapide e tenere in braccio i porci di un vicino che indossava il nome di un imperatore. Mai più la stagione delle piogge ha osato scomodare i numi degli avi con tutte quelle braccia tese a raccogliere le acque nel loro letto di sonniveglia. Sarebbe potuto accadere che nascessi in un qualche domestico conforto, servizievole, nel suo solfeggio di pentole e stoviglie. Sarebbe potuto accadere che nascessi in qualche addomesticata lingua dedita al modulare retore la corretta grammatica discorsiva, ripulita da ogni olezzare di stalla e miscellanea polvere di solaio. Non è andata così, altra la mia sorte, in quelle soglie di dialetto, di gergali gorgoglii, approssimazioni neoillogistiche, invenzioni auliche, latino da messale, angelici canti striduli da tragico convincente strazio dovuto al passeggiare in ginocchio le litanie, e non da meno: un italico scolastico, mi ritrovai così a nascere in una lingua straniera al mio vagito. E nell’ignoranza saggia e fanciullina a non capire niente. I suoni, le musicalità, hanno prevalso sulla semantica della parlata, s’intende: il volgare, la favella indigena. Si davano casi in cui per rima: il significato fosse talmente arbitrario da trovarsi fuor di dizionario. Quando il corretto dire s’era assestato le soglie immaginifiche divennero un manifesto di selvatichezza, restando indistruttibile condanna al poetare nell’atto. I giustizieri di concetto non si avvidero del poemare altrui che mi avvocava, si rasserenarono sul computarmi classici in pagine e pagine densamente stampate. Compitai compitamente fino al compimento con qualche, quanto illusoria, ribellione. Dell’atterrimento, dell’incomprensione, mai alcuno se ne avvide. Forse non ho avuto altra dimora se non una congerie linguistica di poetica incongruità, lingua di nessuno, invisibile composizione d’aura, stare in quel in-con incanto e incontro in cui ti disponi quando ti schiaffeggia a frustate il vento. Ti scompagina il tedio beffardo delle scritte da calligrafo. Esisti per il vento e per il raggio del mattino, null’altro. Ho vagato errabondando dentro tutti gli anfratti dei sentimenti riposti in tante stanze e altre stanze, che si sono alzate ogni giorno e coricate ogni notte mai dello stesso umore, mai e poi mai dipingendo lo stesso virare dei colori. Hanno osato suonare in cupo andante, in sottovoce, hanno concertato allegretti, acuti di follia, da sempre: l’inudibile. Mi hanno abbacinato – Loro? Chi? Cosa, sentori, corrimano, ripostigli? provocato e lenito gli sconforti, dedicato irriguardevoli attenzioni, quel vigilare immerso nel respiro trattenuto in attesa di vedere balzare la lepre o svettare il falco. Stanze, l’immenso in voi si è propagato entrando disatteso da finestre aperte anche quando erano chiuse.
La casa rossa sta in perenne movimento, non le è consono l’appellativo di sicuro rifugio, l’indomestico vi regna con sovrana selvitudine. Troppi via vai, di chi va e chi viene, migrazioni, vita e morte, tanti affari da sbrigare, il riposo, la festa, il lavorio, anche quello infaticabile del picchio sui battenti, hanno dettato scansioni di tempo senza calendario, scene, ob-set, non un luogo deputato. Se qualcosa vi aveva luogo, irrompeva da un altrove che restava incartografabile, come la spedizione quotidiana delle cartoline da un fantomatico Ammiragliato zeppo di vettovaglie strabilianti, quanto nulle. S’infilava lungo il fumo del comignolo l’ira funesta espressa in grida per dare soddisfazione somma al gheppio dei siti diruti: “Questo non è mica un albergo!”. Lo scongiuro vale a conferma. Albergo era, e restò con un registro di nomacci, la medaglia a perennità conferita. La casa rossa, prima di assumere quel tono era vissuta in altre case, altre pareti. Resta, indelebile, il vomero degli inchiostri in zolle e zolle di porte scoperchiate, di cospi brontolanti, quando avevo otto inverni, poi quattordici, anche quando la gelaia quasi ci lasciò stecchiti, pupazzi di marmo liquefatto. Tanti ospiti, viaggiatori di ogni sorta. Storielle e inganni, duelli e ferite di lama inferte da tempo immemorabile, ancora prima di ergersi in quei muri temperati di mattone, assemblati con tenacia biblica da Mosè, che per quel compimento stoico ebbe le allucinazioni, erano accadimenti sedimentati in altri muri, in altri luoghi, alcuni vicini, prossimi, adiacenti: correndo lungo i viottoli s’arrivava alla casa biancofaccia, poi alla Cascina della Cavallina, più avanti al Fondo Case Bruciate, al macero e al residuo della canapa rimasto ipnotico nell’aria mentre si mescola al muschio. Altri eventi, invece, erano fasti lontani, brogliacci oltresonici, imperscrutabili, fatti di quell’oscuro che è fondale insondabile di memorie improprie. Ci sono saloni che si sono vantati d’essere aule di proclami arborei e marini, con altari di arbusti veleggianti su carghi che raggiungono l’Est come loro destinazione. Interrogativi senza soluzione. Cosa vi chiama acque verso l’aurora? Cosa? Ditemi quel che di me qui ascolta si possa udire? Magioni di rivoli di strazi intrisi nei lenzuoli, la traccia che nessun bucato ha cancellato, né mai si darà a scomparire. Granitiche membra sparse in arabeschi, corride cruente, crudeli stilettate d’irreali amletiche orazioni dedicate a improbabili mediterranei mori, prove d’altissima acrobazia, con le sacerdotesse Arianna, Dictinna, Britomarti dalle grandi sottane volanti a discutere su come danzano i prati arrampicandosi lungo il gelsomino e su come le magnanimi serpi si disegnino sul volto accartocciato del centenario che si sollazza a tirare di musica con il bersaglio in attesa dell’arco suo amante: boja di un mondo.
Arianna viaggia nel non tempo, portando tempo in altro tempo, disserta sofismi e nessuno la capisce. Ma poco importa, in tale caso è più efficace. Va e va, ieratica, elegante, Dictinna la quale se ne sta imperscrutabile e scostante, a dispetto del nome, a dichiarare che scimmie e pappagalli, che lei scruta da sotto il pergolato, saltano sgomente di ramo in ramo ascoltando con grottesca gravità il clima atmosferico prodotto da quelle facce di bronzo che la casa rossa ospita in numero via via sempre più affollante. Britomarti, tenacemente concreta, sostiene i suoi convincimenti con scabroso ardore. Sia mai? Quali scimmie e quali pappagalli? Talpe sì, e parecchie, nel suo orto adamantino. Ammette, la signora, Venere cacciatrice, che le traveggole possano però attingere dall’oblio memoriali inconsulti da cineasti di professione. Dictinna fu la prima a partire. Quando dalla favola dell’Ammiragliato giunsero notizie di terre australi, lei s’immortalò con una spedizione leggera e al suono di trombe e tamburi si defilò con una moltitudine di maschere.
Obku, l’africano, stava sul suo trono d’albero, ed essendo africano non aveva abitudini stanziali e non pronunciava giudizi, faceva l’ambasciatore in soliloqui che traduceva in avvincenti camminamenti gestuali improntati a dire qualche cosa sull’età e sull’astronomia. Un dragomanno che dal silenzio trasportava tomi e tomi di sapienze di quel che mai sarà dato a sapersi.
Lentamente Obku, Britomarti, Mosè fecero i bagagli estremi. La casa rossa rimase sospesa a dendeggiare, inconfidenziale, la sua millenaria tresca per sfinire d’agone i fatterelli celebrativi. Remota, con i suoi rintocchi di bosco e di metallo, di echi in cui contingere ancora con altri custodi, nell’eclissarsi all’immagine altrui, si espose al miracolo dell’apparizione.