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Art Brut – Case, 1934
Sospeso il razionale, gli spropositi della paura messi in sale, al rintocco di un secondo si addensa il recondito. Veleggiare in un altrove di dimenticanza e pace, raccogliendo, andando, l’ardire, al trotto di vele spiegate ammainate al momento di sorgere.
Rumori, rimbombi, stridìo di stoviglie, intimiditi dall’ombra, fanno da nenia al salpare verso il nero. Dormo.
Granelli di polvere rossa imbottiscono aria, narici, sangue, ossa, si incastrano tra le sinapsi, ossessionate dall’obbligo di veglia, le coltri abitate in principio respingono, per poi inebriarsi di terra, venti e sapori di cammini lunghissimi. Si fanno grotta, vasca, liquido amniotico, la polvere rossa si riempie di riso ineffabile. Dormo.
Ondeggiano le pareti, intrise di strati di vite, smorfiose occhieggiano alle palpebre guerriere, che lottano per chiudersi. È furto di vita l’ostinato vegliare, la testa appoggiata su un bianco ghiacciato, al diavolo fanfare giulive, teorie imperdibili, notti addobbate di facce fuliginose. Dormo.
Il tempo migliore, nell’incavo morbido del tuo braccio, lo zenit del sonno, beffa suprema all’assurdo e all’ingiusto che scolorano il sole di marzo. É svanito quello che fu, é un accenno confuso quel che sará, dalle macerie cantano camelie scarlatte. Il sonno risponde casa.