Lo stile e l’eleganza di vivere – di Gabriella Landini
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In copertina fotografia di Davide Mosconi ©Archivio Mosconi
Lo stile c’è se c’è cultura, anzi la cultura ne è il presupposto, senza cultura lo stile è una stilistica, un tentativo di canonizzare la forma oppure le forme estetiche, etiche e del tempo. Lo stile è condizione dell’invenzione, ma nessuna invenzione ideologica, tecnica o tecnologica di per sé può padroneggiare lo stile come pure la cultura, anche se questo è il tentativo reiterato nei millenni. Decretare quale sia lo stile, perfino il bello dello stile (purificando il corpo e la scena, togliendo la differenza, la singolarità, la particolarità), inserendolo in una retorica canonica, in un presupposto aprioristico e finalizzato alla conformità di un modello che solitamente decretiamo appartenere a un sistema, significa ritenere lo stile qualcosa di rappresentabile, riconoscibile, identificabile. Quello che si dice solitamente nelle campagne pubblicitarie: uno “stile inconfondibile”, è quello riconducibile a una graduatoria di valori ritenuti socialmente condivisi. Lo stile alto, lo stile basso, quello medio? Ogni definizione fa riferimento a una gerarchia di valutazioni attribuite allo stile dove forma e contenuto sarebbero divisi e destinati a seconda dei casi a prevalere l’una sull’altro come principio uniformante. Antica diatriba, quanto vana e irresolubile, perché la parola non è cosa ed è dunque inafferrabile, nonostante la sintattica razionale ne tenti l’utilizzo come mezzo di comunicazione, seppure con alcune paratattiche aperture poetiche. Tutto ciò che rientra nel canone dello stile e dell’eleganza, è fatto apposta per negare sia lo stile che l’eleganza.
E questo vale in qualsiasi caso vi sia la formulazione di un canone, vale per qualsiasi istituzione e fabbricazione dell’habitus, della convenzionalità o dell’anticonvenzionalità, che ritiene l’eleganza la messa in scena della diversità. Senza l’Altro, quel che rimane altero ad ogni pretesa di conoscenza e dimostrazione, l’eleganza diviene qualcosa di localizzabile (i luoghi giusti dove farne mostra), un alcunché ad appannaggio dell’impersonazione (il personaggio che la rappresenta), oppure delle corporazioni. L’eleganza sta in un dispositivo intellettuale in cui la cultura e l’arte s’incontrano, e si affermano nella parola e nella libertà del fare, dello scambio non codificato. Senza libertà di fare, l’eleganza è assoggettata, obbedisce alla linea e danza a passo di marcia. La parola è arbitraria, arbitraria la lingua, arbitraria la combinazione, arbitrario il viaggio, arbitrario l’atto. Questa la ragione per cui l’artificio non può confondersi con la convenzione. L’artificio si rivolge al nuovo, si avventura nella novità, punta alla qualità, trova la sua scrittura facendo e vivendo. La convenzione mira a cercare il canone, a trarne classificazioni individuando un artificio come quello valido per tutti, lo standard dell’indifferenziato, e pretende o presume che ognuno si attenga ad esso. Anzi, conformarsi ad esso ha la valenza simbolica dell’appartenenza. Arbitrarietà, ovvero nessun elemento significante la fa da padrone, nessun discorso di padronanza, nessun sistema di padronanza, nessun fantasma del potere. Arbitrarietà, perciò particolarità, specificità, libertà di fare, ovvero nessuno dice o fa ciò che vuole. Solo nel discorso della padronanza si può credere di fare ciò che si vuole spacciandola per libertà di pochi e assoggettamento di molti. L’arbitrarietà della parola è condizione dell’eleganza e della combinatoria che non decreta la norma e il codice dell’eleganza.
Se noi togliamo l’arbitrarietà, se noi togliamo la cultura, se noi togliamo l’eleganza resto lo spreco, la violenza, l’abbruttimento. Del resto che cosa è l’ineleganza se non la scelta del fantasma del potere, fra il successo e l’insuccesso, fra l’alto e il basso? L’atto è arbitrario e intellettuale, è atto di parola, ha il suo dispositivo, la sua eleganza. Inelegante è l’adeguamento, ciò che non fa domande e non punta alla qualità, alla differenza, all’altro. Nella rappresentazione di sé e dell’altro sta tutto il sistema eretto per definire le categorie in cui collocare stile ed eleganza. Non va di moda la cultura. La moda, il modo si trasforma incessantemente, nemmeno la moda va di moda, se la moda asseconda il ritmo del tempo la novità resta incodificabile. La vita è una combinatoria insolita, si muove nel suo farsi, senza fissarsi, per questo ogni moda è sempre passata, e si scrive nelle costumanze e nel diritto.
Di chi è l’eleganza? Chi e cosa è elegante? Cosa scegliere per essere eleganti o cosa fare per ottenere l’eleganza?
L’eleganza non riguarda l’essere, l’avere, non riguarda la scelta azzeccata, la giusta scelta oculata, bene ponderata, il potersene o non poterselo permettere, perchè non c’è da scegliere in merito all’eleganza. Scegliere indicherebbe che sia lo stile che l’eleganza avvengano per delega e non secondo la relazione. Nessuna scelta elegante è rappresentabile come tale perché la relazione sarebbe chiusa, finalizzata. Quale stile ed eleganza senza un approccio intellettuale che interpelli l’humanitas? Sono questi i requisiti inderogabili che ci interpellano in ogni relazione, nell’arbitrarietà di ogni atto di parola e nella comunicazione. E lo stile come può non essere stile di vita? Idem per l’eleganza. Se la vita è un assoluto, lo stile e l’eleganza non hanno alternative, ma differentemente da quanto si crede non si insegnano e non si comprano, si possono solo vivere. E questo richiede impegno per ciascuno, singolarmente chiamato a farsi delle domande. Se la vita invece diviene un concetto relativo, sottoposto al principio di morte possibile, distribuibile, da cui salvarsi (o meglio, si salvi chi può, e solo alcuni), allora assisteremo, a ogni genere di rappresentazione dello stile e dell’eleganza, ritratta come elettività e esclusività. Le conseguenze culturali di tutto ciò sono l’erompere della brutalità, anche se trattate sotto l’egidia dello stile e dell’eleganza come condizione elitaria.
Lo stile e l’eleganza sono una combinatoria tra arte e cultura che richiede interrogativi, domande, affinamento, per approdare alla qualità. Non va da sé, richiede responsabilità, intelligenza, cura, attenzione e che non può essere deferita, ci riguarda individualmente e allo stesso tempo collettivamente.