Tratto da Francesco Saba Sardi, Onan, Sugar Editore©Archivio Saba Sardi
… Il perfetto sistema. Oltre i cancelli da venire. Lo schermo illuminato che lascia intatta la tenebra. In questo universo irto di doveri, alcuni dei quali sono diritti, Pavel Malič non ritrovò (non trovò: l’aveva mai conosciuto?) L’impossibile abbandono, lei pura presenza, pura risonanza, orecchio, sorriso. Duplice sostegno reggente un bacile non largo, non greve, così gli piacciono, dove per distillazione si separano sostanze volatili da altre, non volatili; e le prime per nascosti alambicchi salgono a condensarsi in liquidi, lacrime ai racconti dei miei dolori, umida, docile lingua ai miei baci e in basso stillino in umori bartoliniani, altro non chiedo. Cioè, l’impossibile.
Sì, tra quella razza, s’era trovato, ospite d’un’altra galassia. Con loro sobbalzava, di primo mattino, sul carrozzone dei pionieri che pareva proiettato avanti a calci, protervo, perfidioso. E già bastava, a sfiancarlo. Loro, non parliamone: più presto i levavano, e meglio stavano, avresti detto, terrei solo la sera, dopo le legittime ore di sgobbo. Lui, il vaso di coccio. Scompletato. Mutilo. Così per mesi. Ora basta.
Dicono che il fiele qualche goccia di miele… E di fatti: una valigetta piena di cartacce, si recava appresso, nella sua fuga ritrosa nel tempo. Equipaggiato, quanto al resto, come una lepre in viaggio.
… Ho lasciato in disordine cassetti e tavolo. Non ho avvertito che…
Ah, ma non crediate che… No, dico, non vorrei che… E ti interessa, scusa, quel che dicono? Già, non dovrebbe. Obbedendo ad antiche paure, a terrori con tanto di tradizione, chi, di coloro, ai quali egli sarebbe stato categoricamente accomunato nel disprezzo, cercava, in quell’enclave tra un massacro storicamente accertato e un altro, politicamente minacciato o promosso dal romorio del tuono in occidente, di trasmutare la carta moneta, i beni di seconda classe, i più cari arredi, il quadro che solo loro ne sanno il valore, nel bene supremo, palpabile, abbagliante, confortante tesoriglio, rosso oro del Reno anzi, della Ljubljanica; chi, un occhio ai corsi clandestinamente ricostruiti da fogli clandestinamente introdotti, s’affannava nel tentativo di ridurre volumi e ingombri al minimo: il sognato brillante! Il diamante! Il topazio! La durissima pietra, unica con cui comprare il mondo, scintillante cuore del mondo in cui tutto si compra e si vende. Ora, siamo giusti: in una pianura volta a volta percorsa da predoni nordici e occidentali, orientali e meridionali, grassa e quindi allettante, porta d’Italia e quindi di altre prede, invidia di cupi pascolatori e torvi guerrieri, Julia Aemona, Luvigana, Leibacum, Laibach, chi più ne ha più ne metta; e a cui mancanza di indipendenza politica è sempre stata addirittura da proverbio: neanche la lingua, li lasciavano, tant’è che un secolo e mezzo fa se la sono dovuta riscoprire, relitto archeologico: e ora, la capitale al sud, tra le capre!, e noi, i civili, gli industrializzati, i trilingui… non so se mi spiego. Bene, non ho nulla a che fare con costoro. No, questo voglio che sia chiaro. Non specchio, io, della dissociazione tra stato estraneo, remoto, e patria dei beni, degli affetti, del sussiego, dell’ordine, dell’esattezza, dell’appuntamento che è un appuntamento, una scadenza. E allora, quest’inquietudine per il posto di lavoro abbandonato? Cioè, o borghese o proletario. Bene, voglio dimostrare che ci si può sottrarre a questa necessitazione. E ogni tanto giungeva notizia che, dei fuggiaschi, questo o quello… pft! Simulazione di rapina o di arresto; gli hanno sparato che eravamo a un passo, poi, dico: un passo dalla frontiera; mi guardo in giro, e non lo vedo più: inghiottito dalla notte: da una forra: dall’inferno: da una dolina. Mah. Dove andremo a finire, se ci derubiamo tra noi? (sottovoce). No, no grazie tante, faccio da solo. Come? Lo so io.
… FERMARSI O ANDARE?
Ah,ah, grido, chiamo: quale sarà la sua colpaaa?
Noi siamo qui ramengoni, di paieše in paieše, e basterebbe sbagliarsi d’uscio, con la scusa di chiedere la carità a uno dei tanti guardiani della porta, e via mi! Quella sacchetta, è il suo cordone ombellicale. Comunque sia, la sua ostinazione a dimorare nel paese di Charan, regione monticrinita e accerchiante, è certo contraria alla sua vocazione. Dalla Pirostina, gli aveva ingiunto Colui he molto sa e molto muove, recati nel Muggitto, e poi magari rifai il cammino in senso inverso verso Carnaarknica, e spazia oltre, scendi fino a Montona, là dove s’aggirano, dietro ai pingui greggi, coloro che non son fatti per barca, e da qui, instancabile, muove fino a Gottschee che altri chiama Kočewje, spazia, uomo, è la tua missione: dà Cerquenizza (Čerkwenica) a Velike Lašče, da San Canziano a Buie e Pinguente arroccata, tutto conoscerai, tutto vedrai. Vattene, in altre parole, dal tuo paese e dal tuo parentado, nel paese che ti sarà mostrato volta a volta. E lui, il sacchettato, il barbuto, l’incredulo, lo straccione, il pidocchioso, che ha fatto? Proprio così: ramingo, è rimasto sempre fermo. Pazzia e morte: la sua culla. Vecchio infante. Non è mai nato o si è affrettato a cedere alla brama. Il suo seno? Tutto e tutti: io, Stane, capre munte di soppiatto, frutta rubata, polli strozzati foventi il sol dei lupi, ingannando i due cherubi posti a guardia della ferace Fonte dei Quattro Fiumi con moine, lazzi, buffonate, il groppone sempre piegato, riuscendo persino a scansarne le spade infuocate. Bravo. Io, però taglio la corda. Navigo…