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©Riccardo Landi, Videogames
Lisa Rampilli: I videogiochi professionali solitamente obbediscono a una sceneggiatura che può essere ideata da un game designer oppure può essere desunta da variazioni di altri videogiochi. Come in tanta letteratura di genere il videogioco obbedisce a uno schema in cui vengono attivate emozioni e sentimenti particolari. Chiaramente nei videogiochi la competizione, la sfida, talvolta la violenza, sono elementi strutturanti della loro seduzione, della loro vendibili e della loro mobilitazione all’aggressività. In merito a questo argomento tu cosa potresti raccontarci?
Riccardo Landi: Sì, è vero, i videogiochi, soprattutto quelli per il mercato di massa, i blockbuster, seguono più o meno lo stesso canovaccio e i temi trattati sono sempre gli stessi: competizione, guerra, conflitto, potere, violenza, successo. Se da una parte questo insistere sugli stessi temi è incoraggiato dal successo di vendite (i giochi di guerra continuano a vendere tantissimo), secondo me questo ritornare sugli stessi temi è una cosa innata dei videogiochi o innata nel modo in cui una mente creativa si accosta alla creazione di un videogioco.
Va considerato il fatto che il videogioco è, soprattutto, un gioco. In breve, un gioco, per essere definito tale deve rispondere a una serie di caratteristiche. Fondamentalmente deve avere delle regole e deve fornire ai giocatori un obiettivo. Ora potremmo parlare per tutta l’intervista della definizione del concetto di “gioco”, ci sono file di antropologi, sociologi, psicologi e via dicendo che da anni discutono sulla definizione ultima di “gioco”, ma facciamo che la mia stringata definizione vada bene.
Il terzo elemento importante per un gioco, anche se non fondamentale, è la socialità, il giocare con e contro altri individui, altri giocatori.
Mettendo insieme questi tre elementi, si giunge per forza di cose al conflitto, allo scontro. Quando due o più individui devono raggiungere lo stesso obiettivo e solo uno può raggiungerlo, lo scontro è obbligato.
A quasi nessuno, però, piace scontrarsi con altri nella vita reale; la competizione crea stress, sconfitta, delusione e non solo gratificanti vittorie. E infatti la quarta e, forse, più importante caratteristica del gioco è che risulta sicuro, è una simulazione; lo si fa finta. Finita la partita, amici come prima (quasi sempre).
Competizione, sfida, violenza, sono elementi che ci attraggono dalla notte dei tempi, fanno parte della nostra componente istintuale. Giocare a fare la guerra, la lotta, è una delle prime cose che imparano a fare i bambini, da sempre. Perfino gli animali quando giocano, giocano a sopraffarsi a vicenda, ma senza conseguenza, senza davvero farsi male.
I videogiochi, non sono altro che una moderna, costosissima manifestazione di questo fenomeno.
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L.R. :L’altro aspetto molto interessante è la bozza della costruzione del personaggio, quindi, spesso, questo personaggio deve avere delle caratteristiche in funzione dell’azione che dovrà compiere. Quindi sarà mostruoso, bello, debole, forte… e il disegno dovrà corrispondere a dei profili precisi. Quanto questi profili condizionano la fantasia? Qualora siano violenti, avverti anche su di te questo effetto dovendoli costruire?
R.L.:Per un game designer, la creazione di un personaggio è vista più come la creazione di un’interfaccia tra il giocatore e il mondo di gioco. Essendo il videogioco un medium interattivo, il designer pensa prima di tutto al personaggio come a un insieme di funzioni, di azioni e interazioni a disposizione del giocatore.
Questo poi, ovviamente, si riversa sull’estetica del personaggio stesso. Se il personaggio impugna un’arma è perché quell’arma verrà usata. Se il personaggio è alato è perché potrà volare. È tutto molto elementare, un personaggio grosso e muscoloso sarà forte e lento, un personaggio smilzo e/o minuto, sarà veloce e agile. È la forma che dichiara la funzione, la funzione che definisce la forma.
A questo, però, va aggiunto che il personaggio di un videogioco è il centro del mondo del videogioco stesso. Il protagonista di un videogioco è diverso dal protagonista di un film o un libro. Il protagonista di un videogioco è sempre al centro, anche da un punto di vista meramente visivo, l’inquadratura è sempre su di lui, per ore e ore. Il mondo gli scorre accanto, gli ruota attorno, in secondo piano. Per questo il personaggio di un videogioco deve rispecchiare, riassumere tutte le tematiche e caratteristiche del mondo in cui si svolge il gioco.
Creare un personaggio è un po’ come creare un essere semi-senziente, come la creatura del Dottor Frankenstein. Non è un disegno statico, è un qualcosa che si muove, che compie azioni, controllato da individui (i giocatori) che tu designer non conosci. Persone che con la tua creatura faranno, nei limiti del gioco, quello che vorranno.
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L.R.: I videogiochi sperimentali che tu crei su quale elemento fantastico e favolistico si incentrano? E in che modo tu puoi esprimere al meglio la tua immaginazione, la tua creatività?
R.L.:Di solito, i giochi sperimentali che creo cercano di sovvertire le regole dei blockbuster di cui parlavo prima (anche perché altrimenti non sarebbero sperimentali). Mi piace provare a fare il contrario di quello cui ci hanno abituato i giochi fin qui. Provare a togliere il protagonista dal centro dell’azione o vede cosa succede se al protagonista gli si tolgono poteri e abilità. Che sensazioni potrebbe dare muoversi in un mondo pieno di minacce controllando un personaggio privo delle capacità necessarie per sopravvivere a quelle stesse minacce?
Non parto mai da elementi fantastici specifici. Parto, invece, da un’idea di esperienza che voglio far provare al giocatore. Solo in un secondo momento cerco gli elementi fantastici (ma anche reali o realistici) che meglio possano aiutarmi a creare quell’esperienza.
Molti sviluppatori indipendenti e sperimentali, ultimamente, cercano di esplorare nuovi territori creando esperienze multimediali e interattive di grande impatto, spesso sorprendenti, tutte sicuramente lontane anni luce dai giochi commerciali per console Sony e Microsoft. Esperienze interattive che, però, abbandonano completamente il concetto di “gioco”. Spesso mancano di regole e di un obiettivo da raggiungere e per questo vengono chiamati racconti interattivi o semplicemente “esperienze”.
Quello che mi dà più soddisfazione, invece, è riuscire ad abbandonare la poetica dell’eroe invincibile che sconfigge (uccide) tutti rimanendo all’interno dell’ambito ludico. In altre parole, senza abbandonare la forma espressiva del gioco.
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L.R.: Quali archetipi della favolistica, della letteratura e di altre arti attingi per la costruzione del plot?
R.L.:Se dovessi scegliere un archetipo, sceglierei quello dell’antieroe. Se i mondi e le ambientazioni cambiano ogni volta, da astronavi nello spazio a soldati nel deserto, i miei progetti sperimentali sono accomunati da personaggi inadatti al ruolo di protagonista. Mi piace tornare sul tema dell’impotenza dell’individuo, senza però cadere nel fatalismo.
Al momento sto lavorando a un nuovo progetto che cerca di approfondire ulteriormente questo tema del “non-protagonista”. Un gioco in cui le vicende ruotano attorno ad altri personaggi e il giocatore (col suo personaggio) può solo influenzare in minima parte queste vicende. Un gioco in cui le azioni del giocatore non possono cambiare il destino del mondo, nemmeno il destino dei personaggi che gli stanno accanto.
Questo si ricollega ovviamente a quanto detto prima, alla ricerca di qualcosa di diverso, possibilmente opposto, al concetto di eroe predestinato e invincibile proposto da tutti i giochi di successo.
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