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Selvaggio chi? Che cosa? Il tema è vastissimo e seducente, considerando che il termine è un’invenzione particolare a uso specifico e storicamente finalizzato. Il selvaggio attiene alla selva, sylva, quell’aspetto della natura che si è inteso relegare fuori dalle mura fortificate dei primi villaggi e poi dell’urbe. Il boschivo, la foresta, fonte di tanti fantasmagorici mostri tanto pericolosi quanto da abbattere e domare. La città fortezza, apotropaion, scongiuro apotropaico, rispetto all’indomabile oscuro imperscrutabile selvatico. La selva e l’urbe restano adiacenti e divise da un solco tracciato con l’insediamento e l’invenzione dell’agricoltura. Si è creduto che quel solco, quella divisione, decretasse una separazione netta fra i due ambiti, l’uno, l’urbano, protetto e chiuso in se stesso, che della physis fosse ordinamento, l’altro, il selvatico, aperto, insicuro, esposto a mille pericoli. Le alte mura di Khirokitia furono erette per paura dell’intemperie della natura? Dei suoi fantasmatici mostri? Il viaggio dantesco nella selva oscura è allegoria di ogni periglio e avventura che permetta la trasformazione e l’accrescimento delle proprie cognizioni civili, il paradiso potrà essere solo evocato, ma mai più sarà esperito nella sua immediatezza. Radicalmente immediata resterà solo la parola del poeta. Quella che per la civiltà si chiama arte. Sfidata la selva, chi ne supera le prove che essa comporta, troverà ulteriormente confermata la supremazia della civitas. Oltre il recinto, la dimenticanza assoluta, l’intracciabilità, l’esclusione dall’immortalità deificata. Il poeta Villon sembra aver compiuto entrambe le esperienze.
La parola selvaggio ha però una storia. La selva è stata uno dei primi motivi a costituirsi in topos e a ricorrere sia nella narrativa che nella poesia. Se il selvatico era fonte di ispirazione e legava il mitico (il vagante, errabondo, indefinito), al mito, quindi a un racconto strutturato e già organizzato in una prospettiva che è peculiarità dell’uomo urbanizzato, più attinente al contadino, che non all’indigeno o al selvaggio dei boschi, chiaramente la selva è stata intesa come un pericolo posto non solo nel lontano altrove, l’esotico, ma anche nelle immediate vicinanze, luogo insidioso in cui l’uomo impazzisce e in preda alla perdizione soccombe e muore. Il poeta, per Platone, sarà confinato fuori dalla polis e relegato alla sylva per sancire l’irriducibilità della parola mitica originaria al cospetto della mitologia, di cui fa l’elogio come strumento di imperio razionale. Non va dimenticato, che la selva come luogo di prova è un motivo ricorrente di cimento sia nelle favole che nelle saghe e nelle leggende di tutti i popoli civilizzati. La selva è oscurità, nascondimento, luogo estraneo di smarrimento e trappole per il corpo, per la mens e per la razionalità.
Posta la vita fuori dalla vita stessa, il suo sviluppo sarebbe stato osservabile nel suo svolgimento storico, e il selvaggio interviene a un certo punto per chiarirne la sua causa primigenia e il suo svolgimento.
L’originario è stato scambiato per primitivismo, ora esaltato come valore, ora deprecato come degradazione. Il mito del selvaggio diviene il racconto di una genesi, dell’origine di un fenomeno o di un aspetto della realtà come paradigma, parametro, modello di comportamento. Oggetto elettivo dell’antropologia, dell’etologia, dell’ecologia contemporanea, il cosiddetto “buon selvaggio” assume effettivamente, una configurazione mitogenetica, in quanto intende offrirsi come immagine e quasi testimonianza circa l’autentica e primigenia “natura umana”, circa la condizione iniziale e primitiva dell’uomo, esemplificazione di quel volto umano, dotato delle virtù e qualità che l’umanità avrebbe smarrite nel corso della sua evoluzione, e che intende oggettivamente proporsi come paradigma, come archetipo, come modello ideale ormai perduto, quanto inarrivabile, dell’umanità precipitata nell’ambito della conoscenza, anziché di una umanità artefice del principio della conoscenza, e quindi, della sua stessa rappresentazione della caducità.
Le mitologie del selvaggio, buono o crudele che sia, sono state l’esito ideologico di una teoria che tracciava la cartografica della colonizzazione di continenti non raggiunti dalla civilizzazione. L’espansione coloniale aveva nella concezione del selvaggio la sua legittima giustificazione a compiere l’opera di conversione culturale. L’immagine mitica rimane solamente sullo sfondo, emerge e prende forma proprio come fenomeno sorgivo, spontaneo, originario. La consapevolezza della temibilità della sylva, e l’uscita da quella condizione decreta il passaggio dal Paleolitico al Neolitico. L’opposizione fra selvatico e primi insediamenti urbani è antichissima (tutti i viaggiatori di ogni tempo e luogo hanno incontrato popolazioni indigene di ogni sorta in ogni parte del pianeta), e la tratta degli schiavi avviene molto prima che il selvaggio divenga un tema dominante e oggetto di studi e discipline accademiche nella cultura occidentale. La funzionalità del concetto di selvaggio è altra faccenda.
La mitologizzazione del selvaggio sarebbe l’esito di una formidabile invenzione della storiografia ottocentesca parallelamente alla creazione del cattivo o dell’ignobile selvaggio, allo scopo di assicurare un sostegno alla politica coloniale delle potenze occidentali. Il selvaggio è buono, quindi merita di essere aiutato nella sua crescita morale, religiosa, civile, oppure, il selvaggio è malvagio, quindi non c’è da farsi scrupoli se la conquista ricorre a maniere cruente, a sistemi di drastica spoliazione materiale e culturale. La cosmografia del bons sauvages comunque non accoglie la differenza, non accetta che sia: altra gente, altri gruppi umani, altri comportamenti, altri contesti simbolici, ma inserisce queste popolazioni in un codice unificante che li stigmatizza qualificandoli capaci di suscitare disarmante ingenuità, commista a commiserazione, simpatia, adesione caritatevole. Non da meno i selvaggi sono oggetto di ridicolizzazione o di abiezione per la loro intrinseca pericolosità.
Sembra quasi che di fronte alla percezione della definitiva scomparsa di altre realtà umane, per l’invasività di ciò che noi chiamiamo Progresso, i civilizzati abbiamo fatto il loro massimo sforzo teorico, storico e politico, sia di debellarle definitivamente queste realtà altre, cercando conferma del proprio modello culturale apotropaico, sia storicizzandolo che inserendo nella “museificazione de facto” della selvaggeria non senza un pervaso nostalgico sentimento, tipicamente evoluzionistico, dell’impossibilità del ritorno al punto definito ab origine.
Il selvaggio diviene una mitologia del mito della genesi, un concetto aspecifico, attribuibile a una vasta gamma di condizioni umane, a genti, a gruppi, come pure a comportamenti individuali.
Lo sviluppo dell’indigenismo già a partire dai primi del Novecento, e la diffusione della nostalgia del primitivo e dell’armonia della natura, associata ai vari ecologismi dei nostri tempi, comincia a crescere con una cultura che esalta lo “stato di natura”, di rousseauiana memoria, e trova nella giungla l’immagine ideale di uno spazio catartico e palingenetico. Anche per Rousseau il selvaggio è secato dal suo livello aurorale, che risulta definitivamente perduto. La ricostruzione dell’état de nature operata dalla cultura illuministica costituisce una elaborazione teorica destinata alla trasformazione della società occidentale, che ha nell’Emilio il suo apogeo. Lo stato selvaggio e primitivo permette la concettualizzazione di una uguaglianza originaria dell’uomo, che va educata, perché perduta, per l’irrimediabile inferiorità barbarica dello stato primigenio. Non di meno, l’immagine del buon selvaggio, come volto mite dell’America, viene invece ribaltata, per privilegiare l’immagine del selvaggio feroce -magari antropofago- in cui si concentra la fierezza e la rabbia di civiltà straziate dalla violenza della colonizzazione. La svolta palingenetica avviene attraverso l’immersione ammirata e partecipe nelle comunità dette “primitive”, affinché sia ritrovato il legame primigenio facendo unità con la natura e poter così concepirla come naturalismo.
Diversamente Vico riterrà questa condizione selvatica di sogni, credenze, visioni, miti, il primitivo che non né colpevole né innocente: è dall’ignoranza del desiderio che sorge la poesia, quindi prevale l’arte sull’artificio. Prevale la tolleranza della differenza linguistica e culturale sull’eguaglianza forzata. Il diritto non è un principio unificante dell’essere, bensì una pratica del fare. Il diritto esiste per costumanza prima che per codice. La parola altra, comunque, è intoglibile e astratta, ed è chiaro che il racconto dell’antenato non è automaticamente riconducibile alla genesi della nostra idea di religione o storia, non ne è, seguendo un’idea evoluzionistica, il suo prolegomeno.
L’universo simbolico che noi chiamiamo dei selvaggi rimarrà incompreso, anche dall’antropologia, al punto tale che il termine selvaggio o selvaggi è ancora in uso, con connotazioni sempre differenti, applicato a contesti differenti, ma la sua invenzione primitivistica non ha mai perso la sua forza classificatoria. Come fosse un’entità precisa, anziché un semplice principio giudicante. L’arte dei selvaggi non esiste, perché loro stessi non la chiamano arte. Quella che chiamiamo oggi “arte dei selvaggi” non è arte per loro, dato che l’arte è quanto è concesso a noi come ambito di una libertà dal razionale, che non riguarda in alcun modo coloro che non appartengono al mondo razionale. Quindi, quando si parla di arte dei selvaggi, si parla di quanto è stato raccolto nei vari continenti durante la conquista e la colonizzazione, e quanto raccolto dai viaggiatori etnologi e antropologi o altri, presso le popolazioni non venute a contatto con la civiltà per diversi secoli.
L’arte riguarda il contesto nella quale è sorta, ed è apertura al fantastico nell’ambito razionale, ma noi abbiamo inserito il selvaggio nel nostro concetto di arte. L’arte come gioco, l’Art Brut di Jean Dubuffet, l’arte e la follia, l’arte e il disagio, hanno una stratta connessione con la tellus inarata, con il “non lavoro”, con il vagabondaggio, con l’idiot savant. Attribuzioni queste che si crogiolano nel milieu del romanticismo postumo a scapito di una libertà che l’arte esprime per l’irriducibilità dell’umano a ogni pretesa di padronanza sulla parola e sull’esistere, consapevole e inconsapevole che sia.
Cosa ne abbiamo fatto dell’irriducibile? Dell’irriducibilità alle pretese della civilizzazione? Ne abbiamo tratto teorie del giudizio che sono diventate “giustiziere” rispetto ad altre condizioni di esistenza, altri costumi, altri contesti simbolici. Cosa sterminare, cancellare, cosa convertire, ridurre, salvare, mandare al manicomio e mettere in riserve simili ed equiparabili a giardini zoologici di vario genere, luoghi reclusi ed esclusi, la gamma è variegata quanto lo sono le applicazioni e le sfumature che il termine selvaggio ha avuto nel corso della sua storia, affinché l’irriducibilità, non potendola debellare, fosse comunque arginata, addomesticata, delimitata in locus regolati, osservabili, contenibili, secondo principi e pratiche razionali di derivazione metafisica riguardanti la natura, il corpo, lo spirito, il tempo. La verità trascendente dominante sull’immanenza. Trascendenza e immanenza tradotti altrimenti potremmo considerarli elementi del simultaneo, l’immanente dell’esistere si esplica concretamente in quello che si manifesta nella parola, che è sempre originaria nel suo apparire. Se l’invasività planetaria dello stanziamento, come principio civilizzatore di dominio, si è trasformata in una teoria cosmologica coerente, fornendo un modello esattografato autoreferenziale, riduttivo all’unico, androgenetico, votato alla palingenesi cosmopolita, questo non toglie che un Inuit resti libero di non credere a tutto ciò senza essere sterminato. Ma è esattamente questo che non è successo e non succede.
Già se al posto di selvaggio diciamo parole più consone come, altre popolazioni, altra gente, altri costumi, altri contesti simbolici, altri stili, altri racconti, o semplicemente ascoltiamo il suono delle parole di coloro che abbiamo definito selvaggi , ecco che divine chiaro che cosa ha significato e cosa significa selvaggio per noi e le sue implicazioni a livello di come conseguentemente a questa definizione si è agito su altri e su noi stessi. Differente è dire di un gruppo etnico che è genericamente selvaggio anziché chiamarlo Nuba, Aranda, Yanomami.
È selvaggio ciò che non è regolato dalla proprietà della terra e non si uniforma nei costumi, per questo anche il folle o l’artista non di rado viene equiparato al selvaggio. La sessualità è stata considerata selvaggia assimilata all’animalità. Sono dunque selvaggi tutti quei comportamenti che permangono irriducibili.
L’arte sarebbe selvaggia in quanto interpellerebbe la parte originaria dell’umano, in tal modo all’arte sarebbe assegnato sia un valore intrinseco di alterità, come pure di follia. Entrambi i valori obbedendo a un’anomalia rispetto al convenzionale rappresenterebbero comunque un “disagio rispetto alla civiltà”. E qui la letteratura filosofica, psicanalitica scientifica, illuminista e post illuminista è molto vasta e si è notevolmente sbizzarrita.
La pre-civilizzazione corrisponde al Paleolitico, a quella condizione prima dell’invenzione della divinità e del potere. E dunque, il selvaggio diviene il termine in cui definire il pre-civile, pre-storico, pre-conosceza, pre-caducità, quella mitologia che vuole un uomo a-coscienziale della propria esistenza e della morte, conoscenza quindi di sé che nel paleo non aveva e che ora è presunto avere. La conoscenza della propria condizione mortale. Sicuramente è vero che l’uomo occidentale ha una precisa teoria della conoscenza della condizione che lui medesimo si è dato, che ha inventato, scoperto, e che ha logizzato trasformando la “Civiltà” nel modello a cui doversi adeguare secondo un principio gerarchico della padronanza della parola divenuta cosa assoggettabile. Il selvaggio starebbe a rappresentare e a teatralizzare questa immagine dell’inconsapevolezza, rispetto all’urbanizzato, sottoposto alla divinità che concede o non concede il libero arbitrio. La civilizzazione corrisponderebbe al dominio di sé, degli altri, la vittoria sul tempo, la cautela fantastico-immaginativa relegata solo nell’ambito dell’arte. Quindi il racconto selvaggio sarebbe di pertinenza soltanto della parola libera di narrare, mentre la parola civilizzata parrebbe consapevole di se stessa e per meglio afferrarsi mette a ferro fuoco la selva e il selvatico, il selvaggio, la selvaggina, ovunque li incontri. Parola che conosce se stessa si autodefinisce e nomina l’oggetto, la cosa, fonte di sapere e conoscenza teo-epi-onto- così che ogni loghia tragga la sua fantomatica origine in una genesi primitiva classificabile, dividibile, in tanti frammenti intelleggibili. E chi meglio del selvaggio avrebbe potuto fornire la spiegazione razionale dello svolgimento progressivo temporale verso il migliore dei mondi possibili?
Tolto l’enigma, il selvaggio ne è diventato l’attore e il concetto su una scena chiamata natura , come locus elettivo dell’indomestico, della selvaggeria, del pericolo e della paura dell’indomabile, paura di una forza potente non governabile. Quindi natura e cultura, selvaggio e civile, diventano entità antinomiche, dove si crede che la prima domini l’altra. L’uomo redento comporta che l’umanità civilizzata caduca sia sempre da redimere e da salvare, in questo caso il selvaggio è il primigenio esente dal caduco, così come l’artista godrebbe di una estaticità solo a lui concessa per rarità. Il selvaggio è ciò che non è domestico e non è addomesticato. Quindi quando parliamo di selvaggio parliamo esclusivamente di una proiezione mitologica intorno ad altre culture disintegrate in nome della civiltà.
L’irriducibile, ciò che non può essere soggetto e riduzione a un principio di unificazione.
Il selvaggio diviene l’indecifrabile, l’enigma in cui siamo immersi. Apertura senza pretesa di certezze. Come quando guardando un’opera d’arte non pretendiamo di spiegarla, ma semplicemente di coglierla nella sua incomprensibilità. Di goderne semplicemente.