All rights reserved©Gabriella Landini
La parola incanto etimologicamente indica cantare in versi, cantare e anche carme, canzone, e come ogni significante nella corso della storia e del costume ha modificato il suo significato originario per tradursi in mille sfaccettature. Solitamente diciamo che sono un incanto le cose che ci piacciono in sommo grado, che ci sbalordiscono o che accadono e da cui siamo attratti inaspettatamente; non di rado attribuiamo all’incanto qualità e attributi che dal naturale oltrepassano nel soprannaturale, dividendo in due ambiti una sorta potere ritenuto invisibile, occulto: il primo è quello a noi imponderabile insito nella natura , il secondo, quello metafisicamente inventato come l’Aldilà della natura medesima o spirito di essa che la trascende e del quale qualcuno o qualcosa potrebbe farsi agente. Il naturale e il soprannaturale si fondono insieme nel pensiero magico, tramutando l’incanto in incantesimo.
L’incanto e l’incantesimo non hanno la stessa valenza e neppure sono sinonimi di un medesimo significato, anche se il nesso che intercorre tra i due termini ha un valore specifico nella storia della civiltà. Il nesso si esprime nel passaggio dal mitico alla mitologia, quel passaggio che dall’originario fonda l’origine, dall’ignoto passa al noto, dal Caos (un vuoto spalancarsi, Esiodo), al Cosmos, all’ordine, per intervento della divinità legiferante. In questa mutazione l’incanto di derivazione mitica assume i connotati del sortilegio, della fascinazione, del rito magico. Nel libro X dell’Odissea viene descritto l’incantesimo che la maga Circe ordisce con l’inganno ad Ulisse, trasformando con una pozione i suoi compagni in maiali, e il malcapitato dovrà difendersi con altrettante tresche aiutato dal dio Ermes e da un’erba magica per disfarsi degli effetti dell’intruglio di Circe. È sempre Circe che permette a Ulisse di comunicare con la sfera infera e ctonia utilizzando libagioni ottenute con sacrifici. Circe è colei che addomestica le bestie feroci, profetizza, ha le doti della divinazione. Sa del destino solo ciò che sanno gli dei, il destino, dunque, non è più tale, diviene solo una predestinazione con cui l’uomo combatte in perenne conflitto. La maga ha il dono di addomesticare il mondo selvatico utilizzando metodi occulti e iniziatici, sottomette ai suoi poteri quel che resta del selvaggio. In questo canto dell’Odissea, viene introdotta nella narrazione epica un cambiamento epocale, l’approccio diretto con, quello che potremmo definire oggi, lo spirito della natura, con l’ambiente circostante, con l’incanto, cessa, per lasciare il posto a un intermediario, semidivino, razionale che dirige e comanda la sorte, secondo uno schema di causa-effetto, assecondando la finalizzazione degli eventi, operando per mezzo di sotterfugi. Con l’incantesimo entrano in scena il potere e i suoi segreti, le sue devozioni iniziatiche, al mitico subentra il razionale con l’introduzione della funzionalità del divino. Un nuovo modo di concepire la vicenda umana.
E nell’Odissea fanno la loro comparsa anche le Sirene, (di etimo incerto: sorgere, attrarre, incatenare, suonare, catare magico, incandescente) e per non soccombere al loro incantesimo eseguito nel canto mortale, Ulisse e i suoi marinai si tappano le orecchie e lui si lega all’albero maestro per non essere più libero nei propri movimenti. Anche gli Argonauti incontrano le Sirene, ma nell’equipaggio della nave Argo c’è Orfeo, che sovrappone la sua arte del canto- poesia a quello delle Sirene facendole precipitare in mare e tramutandole in rocce. Ulisse si difende, l’in-canto per lui non è risorsa indistruttibile e suprema, si è civilizzato, ha abbandonato la sylva, e con l’astuzia cerca di non soccombere. Non così per Orfeo, il suo stare- nel- canto ha la forza dell’originario, è saldo, non subisce la fascinazione, non cade nella trappola di credere a un potere più forte del suo canto. Per dirla altrimenti, dove il razionale fallisce, l’arte riesce.
La ratio è negazione dell’incanto, e la sua negazione ha avuto come reazione l’introduzione dell’idea di incantesimo. Al mitico si è sostituita la mitologia. Platone ne fa un programma e la celebra come “nobile menzogna”. L’incanto però è indistruttibile e ingovernabile, riaffiora nel sogno, nell’inconsapevole, nell’involontario, e dunque nell’arte, nella poesia, nel canto, nella danza…tanto che dovendo razionalizzare l’innegabile, nella mitologia si sono dovute trovare divinità anche per l’incanto: le apollinee Muse. E al cospetto delle Muse, nulla possono le Sirene, ne escono sempre sconfitte, spiumate e oltraggiate. Arte docet.
L’incanto, dunque, non è l’incantesimo, perché l’incantesimo è la rappresentazione razionale e rituale dell’incanto. L’incanto riguarda il mitico, l’aspetto originario, inconoscibile del nostro vivere, mentre l’incantesimo riguarda il potere, il potere che domina, addomestica e se non può prevalere, distrugge, oppure distribuisce, cataloga, organizza, quel che si è soliti definire il selvaggio, o meglio, quello che definito selvaggio può essere soggiogato, perché pur nominando e classificando, non tutto rientra in questo assetto, la Costellazione di Orione al momento resta “selvaggia”, inarrivabile a tanta pretesa. Il piede sulla luna non ne determina che una sua illibata, illusoria, domesticità. Ma sull’illusoria domesticità si gioca tutta la portata storica della fortuna dell’incantesimo. La fascinazione, il malocchio, la fattura, i maghi, la malvagità che sarebbe contrastata dalla benignità di altri maghi e fattucchiere. Una serie, davvero prolifica di ampollosità, dedicata alla prevalenza occulta del male sul bene, dell’infero sul paradisiaco e viceversa. Nientemeno che la solita lotta del bene sul male, e chi vince è il bene sancito per decreto della vittoria. Gli dei vincono sempre, e dunque, i vittoriosi, indipendentemente dalle atrocità e dalle nefandezze che compiono, sono per decreto divino, la bontà incarnata. E gli incantesimi il supporto ai loro scongiuri. Non c’è tiranno che non consulti maghi e fattucchiere. Prostrazione compresa.
L’incantesimo ha una sua storia legata all’idea che la parola come la vita fosse un oggetto- soggetto fissabile, osservabile, descrivibile, codificabile e dunque assoggettabile, basta che sia preso nella maglia di una rete fitta di credenze e superstizioni. L’incantesimo è la quint’essenza di una credenza pre-religiosa, come vogliono alcuni studiosi, ma da cui non sono esenti le religioni, in cui l’esistere fosse oggettivabile in quanto conoscibile per mezzo di una fabulistica fondata sulla mitologia delle origini. Il soggetto- oggetto, agente o vittima di un potere ultramondano, era così estromesso dal paràdeisos –incanto per essere consegnato alla sua riduzione recintata, divenuto a paradiso esibito nei giardini pensili di Babilonia. La città estromette la selva e ne racchiude l’essenza sotto l’egidia dell’artificio nei propri giardini urbani entro le mura, come luogo deputato dell’incantevole L’uomo estromesso dall’Eden poteva coltivare un Hortus Conclusus dove l’incanto vi fosse evocato come dimensione a lui preclusa per condanna nell’Aldiquà e concessa per merito nell’Aldilà. Ma nessun giardino può rappresentare l’incanto, se l’incanto non è oggettivabile ed è e rimane accessibile solo per via diretta e non per via iniziatica, nessuna sua formalizzazione lo potrà indurre, se non con un artificio più simile allo stordimento che all’incanto. A ciascuno la sua via per il paradiso che è per noi Parola e non trascendente la vita stessa. La poesia, l’oralità, l’istantaneo, (all’incanto), riguardano l’incanto, la favola riguarda l’incantesimo. La favola è una razionalizzazione del legame mitico che intercorre tra l’uomo e la natura, ma non la natura come noi la concettualizziamo filosoficamente. La natura così come noi la intendiamo è un pensiero, una teoria della natura. Si intende qui, la natura che rimane imperscrutabile, e ogni definizione e che per quanto dettagliata e classificatoria rimarrà sempre parziale e frammentaria.
La natura in quanto mitica riguarda l’accogliere, l’ascoltare, ma non l’afferrare, e anche il corpo, il nostro corpo.
L’incantesimo è un dominio magico dell’oggetto, una sua presunta manipolazione, a scopi del tutto favolistici volti ad ottenere un fine preciso. L’incantesimo allude alla finalizzazione della vita, e ogni potere si esercita nel maleficio o nel beneficio, sottoponendo la vita al suo volere infliggendo e minacciando, la morte. Fra mago Merlino e la propaganda ideologica non c’è una distinzione tanto netta, le arti magiche hanno sempre un padrone da servire e una fanciulla da liberare, un vincitore e un vinto. La lotta tra divinità o semi divinità in conflitto fra loro è permanente, la natura risulta strumentale ai complotti, e il rapporto con essa è sottoposto agli intrighi di corte, facendo obliare il vivere in essa.
L’incanto, nella nostra cultura, è rintracciabile in ciò che si dà come immediato, privo di scopi utilitaristici, e dunque come la parola stessa indica, nel canto, nella poesia, nella danza, nella musica, nel disegno, o meglio in tutte quelle attività che si compiono indipendentemente da ogni possibile speculazione.
L’incanto restituisce all’uomo il suo più antico aspetto mitico. Il suo mitema originario.
Quell’essere relati alla natura, (non la natura del naturalismo, idea di natura che è razionale), ma quella natura che è noi stessi ed è sempre presente senza essere divisa, classificata, seppure permanga differente in ogni suo manifestarsi. Un essere umano non è un albero, e nemmeno una tigre, ma l’incanto implica essere irrelati e ritmicamente accordati a ogni singolo essere esistente senza rappresentarne la divisione in una concezione di conflitto o di contraddittorietà, tantomeno di padronanza gerarchica. Comporta la simultaneità del tempo in cui tutti gli elementi del vivente stanno fra loro relati da un filo di nessi che non sono né armonici né disarmonici, semplicemente sono il dato di ciò che ci circonda.
L’incanto sta nel simultaneo della relazione con l’intorno, che per noi si dà nel non -tempo, in quello che usualmente chiamiamo intervallo. Pausazione nel ritmo.
Per trovare esempi attuali di incanto occorre rifarsi alla cultura australiana, oppure allo sciamanesimo, perché l’incanto tranne che in queste culture per noi non è più rintracciabile se non nel sogno e in particolari esiti dell’arte, non tutta l’arte, perché anch’essa non di rado, è decorazione della razionalità, celebrazione ideologica. Nell’incanto il canto asseconda le forme di vita che ascolta intorno, fiumi, rocce, sabbie, animali… tanto che il cammino dell’uomo, l’itinerare, è per gli australiani visibile per ascolto, il visibile e l’invisibile stanno inseparabili nell’ascolto, dove dal silenzio i suoni diventano canto e cammino. Mozart del resto affermava che il silenzio è musica. Ma affinché il silenzio sia musicale occorre un ascolto assoluto, un dimenticarsi di sé, un abbandono che nulla ha a che vedere con la nostra idea dell’immagine di sé e tantomeno della meditazione e di tutti gli sforzi contemplativi. La contemplazione è ancora una rappresentazione della divisione, l’ascolto e l’abbandono avvengono nell’essere dimentichi di sé. Questo legame così diretto con la natura è qualcosa di speciale e originario, tanto che le religioni hanno tentato comunque, in diverse forme, di nominare e tradurre, perché l’incanto, seppure ottenebrato, permane inestinguibile, come del resto resta insopprimibile la natura, e le sue denominazioni variano da Pentecoste, Sekinà, discesa dello spirito, rivelazione, illuminazione, etc.
Per gli australiani nativi, quello che gli antropologi hanno definito il dream time, ma che non rende l’idea, perché il tempo del sogno in questo caso non distingue fra il sonno e la veglia, indica che c’è altro dal tempo. Per noi lo spazio tempo è entità calcolabile, in questo caso non c’è nessuna idea della misurabilità e la cartografia non è assimilabile a nessuna idea che noi ne abbiamo, bensì è un solidale stare con l’intorno, una traccia percorribile unicamente nell’esperire e non nel conoscere o sapere. È stare con l’intorno non significa fare tutt’uno con esso, essere tutt’uno con la natura o con l’ambiente, anche questa è una nostra congettura, perché un aborigeno differenzia nel canto un canguro da una roccia, quindi percepisce le specifiche singolarità dell’ambiente circostante e si pone in-esso senza dominarlo, e dunque senza una riduzione all’unitarietà o a una totalità dei suoi elementi. Accoglie e si accorda con ciò che lo circonda.
Il canto dunque diviene l’effetto di ciò che ascolta, lo traduce in sonorità che gli permettono di percorrere il cammino senza aggiungere e senza togliere, senza fare la linea retta più pratica dei binari della ferrovia. Non adegua la natura alle sue edificazioni, perché non concepisce la metafisica e lo sfruttamento. Quindi anche il sogno come la veglia partecipano di questo ascolto.
Questo atempo mitico è sempre stato riconosciuto dai popoli che si ritengono civili, come tempo storico primigenio, prima dell’invenzione della storia e delle religioni, quindi questo tempo mitico è stato considerato secondo una durata, con una origine e uno svolgimento lineare o circolare, prima il tempo dei tempi, poi il tempo, e la civiltà è una delle conseguenze dell’invenzione del tempo.
Ma quello che noi definiamo l’intervallo: il residuo mitico di ciò che è altro dal tempo e che obbedisce alle vibrazioni ritmiche che ogni elemento dell’esistente intorno a noi emana, pioggia, vento, sole, polvere, resta come residuale. Il silenzio del pensiero raziocinante permette l’ascolto e in quell’ascolto emerge il residuo mitico. Ciò di cui si tratta non concerne un nostalgico ritorno alla natura, perché dalla natura noi non siamo mai partiti, siamo imprescindibili da essa, sia sulla terra che su Marte. Crediamo di dominarla, di osservarla, di classificarla, ma anche qualora lo facessimo ancora sarebbe lì, anche nelle peggiori devastazioni, poiché prima che all’ambiente noi le devastazioni le mettiamo in opera innanzi tutto su noi stessi. Nonostante le pretese della città fortezza, riparo e scongiuro delle nostre paure, nonostante i nostri scempi e la loro vastità distruttiva, comunque la natura persiste indomita, così come non sono domabili il corpo, le forze, le onde. Possiamo dividere, frammentate, ordinare per gerarchie e categorie, alto, basso, anatomizzare, sezionare, renderci dipendenti, sempre più dipendenti da macchine, ma l’incanto è un irriducibile. Impossibile vincerlo. Possiamo dividerlo in conscio, preconscio, subconscio, sonnambulismo, onirismo, cognitivismo, ipnotismo, reminescenze, telematia, ma all’infinito l’incanto riemerge potente perché è insecabile da noi, ed è immanente in quel che chiamiamo riduttivamente natura e ambiente. Noi siamo natura e ambiente prima ancora che un alcunché di piccino piccino chiamato io.