Cervelli in fuga/ La scommessa – di Gabriella Landini
Con “Cervelli in fuga” definiamo solitamente coloro che si mettono in viaggio per trovare in altri luoghi la riuscita di un progetto di vita. Indipendentemente dalle ragioni che provocano questa decisione radicale di partenza e insieme di nuovo inizio dell’esistenza (e le spinte e i pretesti possono essere: il sogno, la vocazione, l’esilio, la povertà, la ricchezza, una meta, un desiderio, la guerra, la conquista), l’impresa del recarsi altrove resta un’aspirazione originaria dell’itineranza umana. Abituati allo stanziamento abbiamo dimenticato il nostro migrare da una terra all’altra, quando la terra non era ancora assoggettata alla proprietà di qualcuno. Si possono definire le erranze “fughe” solo in taluni casi, e non sempre il termine fuga sta a indicare un desiderio di sottrarsi alle responsabilità o a una qualche circostanza oppressiva. Non va dimenticato che le fughe sono anche sublimi aperture verso l’altro, così come il punto di fuga nelle polifonie di Bach produce intrecci e contrappunti di voci nel canto. Nuove combinazioni. Ma il cervello può davvero mettersi in fuga? Potrebbe mai fuggire se stesso? Convenzionalmente l’appartenere alla categoria dei “cervelli in fuga” starebbe a indicare una condizione costrittiva di chi non potendo realizzare un progetto, qualsiasi esso sia, in un luogo, si reca, per desiderio o per bisogno, laddove sia possibile concretizzarlo. La fuga di cervelli diviene la dannazione di una nazione che ritiene di perdere le sue migliori risorse intellettuali a favore di altre nazioni presso le quali i “cervelli” approdano. Indipendentemente dai singoli casi individuali, il cervello (che anatomicamente resta imperscrutabile a pretese di spiegazioni esaustive e scientificamente descrivibili), è ricco di significati metaforici. Il cervello dove si trova? Nella testa, nella pancia, nelle mani? Il cervello delle cose dove si trova? Nelle opere? Dappertutto? Altrove? Il cervello è corpo e spirito, intelligenza, invenzione, arte, abbandono, sfida, fede, rischio, scommessa, improbabilità, forza, virtù… viaggio.
Il cervello è natura o artificio? Entrambe le cose? Potremmo definire il cervello il dispositivo in cui le cose si fanno e ha come condizione la libertà di fare. E questo vale per le opere d’ingegno, per l’impresa, come pure per l’eremitaggio. La libertà di fare trae a sé il cervello. Il cervello è ove vi sia libertà. Nell’illeberalità ci si scervella su come fare per fare funzionare il cervello, qualsiasi sia il talento e la sua particolarità. Nella libertà, il fare non è prescritto e nemmeno proibito, è altro, è fare altro. Facendo si dà invenzione, arte, novità, integrazione, tolleranza. Senza libertà di fare coloro che vengono chiamati “cervelli” si recheranno “dove” e “quando” questa libertà di fare potrà verificarsi. Il cervello di qualsiasi impresa o progetto di vita è un dispositivo intellettivo del fare: come le cose si dispongono in un ritmo per combinarsi e avvenire. Allora piuttosto che di Cervelli in Fuga dovremmo parlare di Cervelli in Viaggio. E i cervelli hanno sempre viaggiato da un luogo all’altro, anzi si sono avvalsi dell’estraneità di altre culture per meglio combinare le loro invenzioni. Charlie Chaplin, Leonardo da Vinci, Guglielmo Marconi, Albert Einstein, Cervantes, mistici, architetti, stilisti… e tanti altri a noi sconosciuti che in ogni parte del pianeta si muovono in questo stesso istante. Spesso la decisione di mettersi in viaggio non è una volontà, o un’intenzione dichiarata, prevedibile, è piuttosto l’effetto di una contingenza che si lega a un particolare movente e decide di un destino. Non c’è il luogo ideale dove le cose riescono, Leonardo la chiama forza intellettuale e Macchiavelli virtù, e la forza e la virtù è rintracciabile in ogni opera d’ingegno che viaggi. A volte viaggiano gli uomini e le donne, altre volte viaggiano le loro opere, o le idee. Sempre di ingegno si tratta. Nulla è scontato, nulla è già dato per acquisito in partenza, il risultato non è garantito, il viaggio non è mappato, nulla che possa transitare da un luogo all’altro come passaggio iniziatico verso una meta già esistente. Illocalizzabile lo spazio-tempo della realizzazione di un obiettivo o di un sogno, indecidibile la sua meta definitiva, perché ciascuna cosa è tratta dal viaggio e contribuisce al viaggio. Il viaggio inizia ed è interminabile, le sue mete saranno approdi, porti di attracco da cui fare ripartire la nave.
E, affinché il cervello, il dispositivo- impresa del fare esista, non dipende da classi o caste che possano determinarne l’origine e la fine, la probabilità o l’improbabilità, la durata, la linea da seguire, il cerchio temporale di ritorno, bensì dipende dalla scommessa. Nessun ritorno al punto di partenza, nessun azzeramento, la scommessa obbedisce alla curvatura delle cose, alla piega, all’ondulazione e alla modulazione del movimento.
La scommessa.
Scommettere sul cavallo vincente? Il gioco è preso in una partita chiusa, il numero limitato dei cavalli garantisce la prevedibilità degli esiti, farcela è sempre una mediazione fra concorrenti. Scommettere a un tavolo da gioco? C’è chi vince e c’è chi perde, dunque è un’alternativa fra vincere e perdere e a turno si perde, e barare con se stessi è la regola per continuare a darsi l’alternativa fra soccombere e prevalere. Scommettere al tavolo verde? Illusoria la vincita, solo il banco vince sempre, ovverossia, chi fa l’impresa è l’unico che scommette davvero, e scommette sul fideismo di coloro che credono alla fine del tempo, dei soldi, della vita, per ripartire da zero pagando penio e assumendo il premio o la pena. La roulette russa è l’estrema rivelazione della fine del gioco, in cui la scommessa punta a decretare la vita o la morte, non più per via di metafora, ma alla lettera.
Dunque, allora, quale partita e quale gioco procedono da una scommessa in cui la riuscita non abbia alternative e non si affidi al fatalismo e alla superstizione? E non abbia da mettere in campo il pregiudizio che ci sia da scegliere tra la vita e la morte, offrire sacrifici propiziatori agli dei, e dove la sfida punta all’improbabile, all’inverosimile, a ciò che esula dal codificabile e dalla previsione?
La scommessa procede dalla sfida, e la sfida, sia che si tratti di scalare una montagna, di vivere nel deserto, di costruire un’impresa nuova, di essere testimone di pace nella tolleranza della differenza, di inventare un congegno, di inventare un modo di fare cucina non può eludere l’apertura, l’ingiudicabile a priori, il procedere da ciò che resta aperto ad esiti prima inesistenti, accordando al non noto l’entusiasmo del “non sapere che fare”, quindi, “molto c’è da fare, perché c’è da costruire, da inventare. Si tratta di accogliere una domanda la cui risposta non è data in partenza, l’insaputo, ovvero non si tratta di scoprire, di svelare, quanto di accogliere esiti imprevedibili. In questo caso i giochi e le partite mai saranno chiuse, decretabili per contrapposizione di chi vince e chi perde, e come in una corale o in un contrappunto di Bach, la fuga diviene un punto in cui è impossibile decretare la parola fine di una composizione. Qualcosa resta dischiuso ad altre variazioni.
La sfida è ironica, si rivolge all’incommensurabile, al risultato indecidibile per via causale, il bersaglio consapevole rimarrà pretestuale, e il suo raggiungimento sarà costatabile solo rilevandone gli effetti nell’ignoranza delle cause.
La scommessa è dunque una scommessa di vita. Ed è curioso che si debba scommettere per la vita mentre stiamo vivendo. Ma non va da sé neppure questo, perché puntare alla riuscita è tutt’altro che ovvio in una cultura che sulla mortificazione e sulla funzionalità della morte ha puntato tutte le sue risorse intellettuali e umane per smania di dominio. Ogni scongiuro tramuta la scommessa in una promessa di salvezza o di pena, esorcizzando il fare e tramutandolo in un “fare, disfare e rifare, anzi, rifondare in secola seculorum ” che nulla giova all’etica, all’estetica e all’Altro, indispensabili requisiti del vivere e non del sopravvivere.
Ciascuna scommessa ha una missione, senza visione, senza sapere o previsione, infatti il risultato non è dato in quanto prevedibile, se lo fosse non sarebbe più una scommessa ma una divinazione il cui responso definirebbe l’avvenire come futuro anteriore.
La scommessa richiede una pratica, richiede un patto, un dispositivo, uno statuto di parola, l’atto, il facendo, riguarda la complessità e la difficoltà. Richiede che la frontiera e il limite non siano la rappresentazione dei limiti di ciascuno e le frontiere invalicabili dei propri confini geografici, la scommessa richiede il fare secondo l’occorrenza, un ascolto che decide per l’avvenire. Nella nostra cultura l’avvenire è ripetizione del passato, consuetudine, conformità, con qualche abbellimento, oscillando fra morte e rinascita, di ciò che è già consolidato tradizionalmente. Un testo della tradizione che appare già scritto interamente. Totalizzante. Il testo, però, ha vuoti, e il tempo intervalli, in cui ciò che è imperscrutabile è dinanzi.
L’avvenire dinanzi non può essere visto né previsto, non può dipendere dalla volontà di fare bene o male, non ha alternative, non poggia sul sapere come va a finire e dunque sull’idea della fine del tempo e delle cose. La scommessa a differenza di quanto si crede non ha alternative. Non poggia sull’alternativa tra successo e insuccesso, tra riuscita e fallimento, tra bene e male. Avviene vivendo nella pienezza dell’istante in cui la vita si manifesta nella sua grandezza in quanto tale.
La scommessa è propria del fare, è pragmatica. È propria del fare in cui interviene il ritmo e l’interlocutorietà. Non si sorregge sull’interrogativo su come andranno a finire le favole, (domanda che ciascuno ha imparato recitando la letteratura fin da bambino)non è una scommessa a partire dalla speranza che qualcosa finisca in trionfo o rovina. L’avvenire è compimento del fare e oltre il fare, oltre la frontiera e il limite del tempo. È oltre il saperne qualcosa prima dell’atto. In ogni posto dove le cose accadono i racconti prosperano, e questo anche la mattina fra i banchetti dei mercati.
Oltre il limite, oltre la frontiera: sta l’avvenire, perché ciò che si fa si scrive, così ogni impresa della nostra vita trova nella parola e nel racconto la sua scrittura. E il racconto è incessante.
Mettere in gioco i talenti, l’ingegno, quelli che l’istante e la coincidenza esigono nelle occasioni a noi date e che non sono mai uguali, anzi, sono differenti per ciascuno. Non esistono protocolli generali e unitari, tranne nella riproduzione di ciò che viene preso nell’idea della predestinazione, del già dato e sancito, anche se questa credenza sacrifica la vita e la rende infernale. Ciascuno dispone dei talenti per affrontare l’occorrenza, che è sempre differente, ritenere l’istante indistinto da un altro significa votarsi alla replica indifferente. L’occorrenza trae a sé l’anomalia, l’ineguale, mai uguale. L’intervallo è questo: non c’è uguale. L’intervallo è contraddistinto dall’anomalia, che è nel fare, nella pratica. Non c’è il fare senza anomalia, non c’è il racconto senza anomalia, non c’è il sogno: impossibile sognare e dimenticare senza anomalia, che non ha nessuna connotazione negativa o positiva, indica semplicemente un altro andamento. Per un serfista nessun flutto è uguale o simile a un altro, e ha talento e si diverte quando riesce a tenere le onde per quelle che sono, nell’istante in cui si destreggia nel mare increspato con la sua tavola. Il serfista sarà attento allo stile e alla particolarità in armonia con il suo corpo, perché se tenesse l’onda secondo un manuale o secondo le statistiche finirebbe travolto. Ciascuna scommessa ha una missione che richiede fede senza visione del mondo, senza più confessione e professione. La vita, ciascuna vita, esige una scommessa sul sogno, in ciò che si fa, in ciò che avviene, e in ciò che diviene. Se facessimo solo ciò che è probabile, contrattato socialmente, non faremmo niente. La scommessa non procede dal contratto sociale, ma dal patto per la riuscita.
La via che comporta altro, quello che ancora non è avvenuto e che avviene facendo per noi, in noi, e per altro, nella libertà di fare che non è e mai sarà sopprimere la differenza.