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Henri Matisse, La danza
La memoria è il filo dell’infinito, quell’atto della parola che resta inestinguibile. La memoria appartiene all’oralità, si tramanda ben oltre ogni presunzione di esaurirne la portata nella scrittura, nella documentazione, nei templi e nella museificazione. La memoria è sempre un debordamento della scrittura, è quel che nella scrittura resta dimentico, un vuoto che permette nuove aperture: letture inedite, invenzioni sorprendenti, fantasie, è ciò che dallo scritto ci permette di passare oltre il limite dell’inchiostro e della stampa. La memoria oltrepassa la visibilità. Un passo audace quanto imprevedibile. Solo per dimenticanza, la memoria, restando inattuale, inattingibile, enigmatica, può giungere a inventare l’avvenire senza che si dia la ripetizione di una rappresentazione reliquiaria e cerimoniale degli eventi.
Siamo soliti attribuire al catalogo dei ricordi la funzione della memoria. Il ricordo secondo Freud, era sempre di copertura, ovverossia una specie di realtà fittizia, che potremmo anche denominare: pretesa di rendere metafisica e condivisibile la memoria–così come pure la parola– negando l’ascolto e potendo dichiarare che gli eventi rientrano nell’ambito della categorizzazione storico temporale e passano con lo scorrere del tempo. Asserto, questo, pericoloso, perché quello che definiamo ricordo è una raffigurazione della realtà dei fatti con pretesa che essi rappresentino la verità, anzi che divengano in sé e per sé prova della verità. E dunque l’evento avrebbe una verità intrinseca che si sottrae alla memoria.
Secondo questa credenza, gli eventi potrebbero essere archiviati, tenuti in una sorta di limbo anestetizzato per potersi meglio ripetere e riprodurre quale rappresentazione del passato che si ripropone riattualizzandosi. Una negazione della memoria a favore del “ così è andata veramente, inesorabile destino, così vanno le cose da sempre e sempre così andranno” che fornisce la chiave interpretativa del futuro a partire da un’idea totalizzante del sapere sul passato. Leggere l’attuale attraverso il passato implica non intendere nulla del contingente, dell’hic et nunc, e proiettare esattamente nel domani quel che si è già compiuto ieri, in nome dell’ineluttabilità della ripetizione letterale allo scopo di mantenere lo status quo. È questo l’unico modo in cui il potere può asserire di essere necessario e causale, perché permanente nel suo riproporsi, e quindi sempre esistito, risorgendo dalle sue stesse ceneri immutato e immutabile nella sua imperitura legittima-illegittimità autoreferenziale e concessa solo a esso. È un detto popolare quello che dice che “non si impara dagli errori del passato”, infatti, se ci fosse memoria, il camminare lungo le tracce degli eventi, trarrebbe e produrrebbe racconti, elaborazioni, teorie, arte, esattamente come accade nel caso del sogno, e questo, non permetterebbe il riproporsi degli eventi, qualsiasi essi siano stati per noi: traumatici, felici, gloriosi o di sconfitta. I ricordi servono per canonizzare il sapere a scopo di dominio e di vendetta. È il “ si è sempre fatto così”, e non di rado confondiamo la memoria con i ricordi. La memoria dimentica, passa oltre, trova impronte. Il suo passo è audace e osa l’azzardo dell’improbabile, dell’assurdo.
La memoria però non è governata da quello che noi definiamo il tempo cronologico e storico, la memoria non è ad appannaggio di nessun potere che possa coglierla nel suo funzionamento, tant’è vero che a ogni pretesa di rappresentare in modo mitologico e propagandistico un evento, spesso fa da contrappunto la forza della testimonianza, anche di un singolo individuo che va ad inficiare pretese di verità sancite e collettivamente credute realtà.
La memoria è quel che non è ancora stato scritto di un accadimento e procede dalla dimenticanza. La traccia lasciata da un evento passando per la dimenticanza trova un nuovo esito nel dire e nel fare, agisce nella tradizione per i vuoti che questa lascia. Lavora nel silenzio.
A differenza del ricordo che si eleva a presunto metafenomeno, consacrato in quanto fatto, oggettivamente descrivibile proiettato nel futuro spazio temporale, la memoria tiene la traccia, il filo, la corda e la piega per divenire elemento indescrivibile in quanto oggetto e inascrivibile al soggetto, ovvero, resta atto di parola dedito all’oralità per eccellenza senza che vi sia padronanza della funzione mnestica.
Impossibile abolire Madama Mnemosine e le sue Muse, (memorabile esperimento quello fatto alcuni anni fa negli Stati Uniti di produrre un farmaco che cancellasse la memoria) le sue tracce resterebbero comunque, così il suo racconto, il suo canto e le sue imprese. I padroni della memoria ne tiranneggiano un sapere, ragionano al servizio della statistica e del calcolo delle probabilità, negando l’intervallo, il sogno e l’oblio, facendo del vivere una rappresentazione dell’inferno dove ogni malinteso diviene una complicazione e il testo e la tradizione lettera morta, travolta da corsi e ricorsi storici. La memoria come racconto esige l’abuso; abuso originario della parola che si situa nell’in-tra-dire- (l’astrazione inassumibile della tradizione stessa), senza questo intradire, vi è l’assunzione del tradimento come ruolo e come pratica del conflitto e della violenza. Nel racconto-memoria c’è anche la testimonianza che è debordamento del sancito, alterità, mnesi in altro, e responsabilità dell’altro, anche verso l’altro e nei confronti del collettivo. La memoria è un infinito senza durata, per questo intendere la portata della memoria nella cultura rende l’atto, il fattuale distante dall’idea del fatto e del fattibile sempre cercandone la ragion d’essere nel passato. La memoria non essendo un continuum rende il tempo un infinito senza durata: un infinito a costellazione di accidentalità. Più esattamente: arte combinatoria e invenzione che nel contingente coglie la portata di una nuova eventualità, anziché essere una dottrina della predestinazione, la quale partendo dalla causa sui- ab origine, ne celebra la sua continuazione considerandola genealogicamente comprovata. La memoria è quel che non è ancora stato scritto sia del testo che degli eventi. Procede dalla traccia mnestica dell’oblio che appare nel sogno.
La memoria è immemoriale e immemorabile: la dimenticanza è il suo specifico; è inesorabilmente inattuale per questo predispone alla novità, al sogno; è atemporale e per questo non iscritta nel continuum o nella discontinuità a partire dal principio di morte, è imperitura quanto la parola, l’oralità, pertiene il sacro. L’arte della memoria come mnemotecnica e come mnemomacchina è un’invenzione il cui precursore, così vuole il leggendario, sarebbe stato il “mago al rogo”, Giordano Bruno. Ma leggendo attentamente la teoria del nolano si scorge che per lui l’ombra delle idee non sono che orma di luce. Per Bruno la memoria non è uno strumento per misurare e risparmiare il tempo, tutt’altro, l’oscuro è un aspetto della luce, dell’apertura originaria, dell’originarietà della parola, dell’inconciliabile, dell’immensità, De l’infinito, universo e mondi, in cui alla ragione non resta che un balbettio superbo e pretenzioso. Irrappresentabile l’ombra: la luce dell’intendimento è serbata dall’ombra, l’analogia diviene una declinazione dell’ironia, le cose sono inconciliabili, la somiglianza volge in alterità, il passato non vale il qui e ora, il contingente, l’adesso, non lo spiega, non lo dimostra. Nell’oblio è serbata la luce dell’intendimento della memoria. Più che arte della memoria è la memoria a essere arte e cultura.