Intorno al termine rivoluzione- di Francesco Saba Sardi
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Non intorno all’oggetto rivoluzione, res che, come cercherò di indicare più avanti, è di ardua determinazione ed è luogo di accanimenti definitori, soprattutto per quanto attiene ai limiti, non soltanto temporali, di ciò che vagamente si intende per rivoluzione.
Questo mio intervento riguarda piuttosto la genesi della parola e le sue numerosissime letteralizzazioni. Come dunque sia stata interpretata e come si sia tentato di tradurre il concetto «rivoluzione» in atto concreto nel corso dei secoli. Se si vuole, mi occupo della favola rivoluzione e intendo per favola o fiaba — termini perfettamente identici — la narratizzazione del Discorso, la tentata versione o esposizione del Discorso in termini narrativi. E il Discorso pertiene sempre e comunque alla favola in quanto presume (e ne fa fede quell’enorme fenomeno, in inarrestabile crescita su se stesso, che ha nome religione) di rivelare la sostanza, di fare della Parola un oggetto manipolabile, fedele a un tentativo di continuo ripetuto e anzi, oggi soprattutto, con il ricorso a quello che vorrei chiamare celebrobiologismo. In altra sede, in un mio libro intitolato Il traduttore libertino, ho dato un nome alla favola, ne ho fatto un personaggio, Semantico, tenace e testardo contestatore di Giocoso che sostiene i diritti della riaffermazione del mitico.
La rivoluzione è stata inizialmente astronomica: a partire dal XV secolo, con questo termine si è cominciato a designare il rivolgimento di un astro attorno a un altro astro in un orbita chiusa e la durata del suo periodo, ancora soprattutto quello del sole attorno alla terra e, da Keplero e Galilei in poi, della terra attorno al sole. Il termine è stato via via esteso, designando a esempio la superficie o solido di rivoluzione, equivalente di superficie o solido di rotazione. Con il termine di rivoluzione siderale si è quindi cominciato a indicare, nel XVII secolo, il tempo che l’astro, visto dal centro del moto, impiega per ritornare nella stessa posizione tra le costellazioni. Ed è proprio da questa ultima designazione, relativa alla tendenza del movimento a ritornare alla posizione ritenuta prescrittiva tra le costellazioni, che si è voluto estendere l’idea di rivoluzione alla sfera soprattutto politica e per estensione a molte altre.
Il concetto è entrato in uso nel contesto di una generale reductio ad unum, di una visione dell’universo come prodotto o effetto di un intervento causale metafisico, e spero che questo valga a spiegare il mio precedente accenno alla favola-religione. Nascita dell’universo, dunque, e pertanto rivoluzione come prodotto di un’unica volontà monocratica. Universo causato da un soggetto sopraelevato, come del resto la stessa rivoluzione siderale, secondo le teologie monoteistiche e invece incausato, eterno, senza origine, retto da leggi supposte ma inconoscibili e non attribuibili a nessuna divinità, secondo le concezioni buddiste. Nella visione monoteistica, ripeto, universo causato, con un principio, Dio o Big-Bang, e con una conclusione — fine dei tempi, apocalisse. Dunque, insisto, rivoluzione siderale e struttura dell’universo frutto di un soggetto agente concepito in termini teologici, da un evento anch’esso unico, in funzione appunto di soggetto, di motore immobile più o meno personificato.
Dal cielo stellato, il termine rivoluzione, irreperibile ancora in Galilei e dunque generalizzatosi solo nella seconda metà del Seicento, è sceso a designare eventi terrestri. Prima, non è reperibile. Non lo si trova nelle dottrine politiche di Platone e di Aristotele, non c’è negli scritti degli autori dell’età romana per i quali si danno soltanto sedizioni, guerre civili, colpi di stato, oppure alterazioni e passaggi da una forma di governo a un’altra con rapide trasformazioni dell’intero assetto politico e sociale frutto sempre di specifici soggetti. Senza che mai si cerchi di individuarne le ragioni: si limita infatti a deprecare o esaltare i soggetti; non esiste ancora una storiografia, ma ha luogo la cronaca, in sostanza illustrazione dei soggetti stessi. Non diversamente accadeva, del resto, con le dottrine mesopotamiche o egizie: ancora una volta, cicli e alterazioni dettate da congiunzioni astrali, oppure frutto di decessi di sovrani e scomparsa della loro corte che è tutt’uno con la struttura amministrativa o legislativa, o ancora transizioni da una capitale all’altra dovute a sconfitte belliche o a rivolte di palazzo. Mai dunque trasformazioni frutto di reiterai tentativi di rovesciare le autorità politiche esistenti e di sostituirle allo scopo di effettuare programmatici cambiamenti nei rapporti politici, sociali, giuridici, economici. E mai le ragioni della trasformazione dal basso. La rivolta resta sospesa nel mondo dei poteri, con conseguenze che calano verso il basso. Il potere continua a essere ritenuto una fatalità immutabile.
Solo alla fine del Seicento si trova il termine rivoluzione nel senso di rovesciamento politico sistematico o, per estensione, di esplicito «No» opposto a concezioni dottrinali e a visioni socio-politiche. È questa l’epoca dei libertini, occupati a smascherare il potere in nome della miscredenza, del rifiuto delle autorità ecclesiastiche e politiche, dell’affrancamento dai dogmi e dalla soffocante centralizzazione. Ma si tratta allora di un ritorno all’ordine preesistente che si suppone sia stato turbato per incompetenza o nequizia. Ed è molto spesso un’eco, in fin dei conti metafisica, dell’auspicato ritorno alla favoleggiata età dell’oro dei primordi. È l’epoca di Rousseau, della presunta perfezione dell’uomo di natura; è l’epoca dell’Illuminismo, trionfo della ragione e sua esaltazione sfociata nel Romanticismo.
Solo tra il XIX e il XX secolo la rivoluzione è diventata originale e inedita, vera e propria aspirazione a un ordine nuovo. E già allora si tenta di scoprire le ragioni, le motivazioni della rivoluzione, restando tuttavia confinati nell’ambito della soggettività. Comunque già si profila qualcosa d’altro: non è più soltanto la revisione e il ripristino nel contesto dei vecchi ordinamenti, come è stata all’inizio la stessa Rivoluzione francese, come sono state la Rivoluzione inglese e quella americana, mosse dal desiderio di sbarazzarsi da intoppi, ostacoli, legislazioni soffocanti, senza però alterare sistemi ormai definiti, consolidati. Ed è ancora il prodotto di isolati soggetti, che operano e avviano il movimento. La rivoluzione francese è stata infatti promossa da ideologi che hanno dilatato le concezioni dei libertini indicando nell’istituto monarchico la fonte di tutti i mali sociali. Ma la rivoluzione francese non ha abolito colonialismi e schiavitù in terre extra-europee, non si è neppure proposta il superamento delle classi sociali, ha eliminato la monarchia ma ha insediato al suo posto il predominio della borghesia. Non dunque un ricominciamento assoluto, ab origine, non la fondazione di nuovi, inediti, rapporti interumani. Non dunque un’invenzione, bensì la continuazione di ideologie precedenti, loro revisioni ritenute salvifiche, miglioramenti ma non metamorfosi totalizzanti, e soprattutto continuazione di quella freccia monodirezionale, la freccia temporale del progresso, destinato a portare un po’ alla volta, per virtù propria, a un perfezionamento della natura umana, in sé sostanzialmente immutabile.
Solo in Marx la rivoluzione diventa, di nome ma non certo di fatto, strumento per la prospettata conquista di una libertà effettiva e definitiva, mediante il superamento delle classi. La rivoluzione, diventata invenzione, è allora intesa quale medicina sovrana, universale, dei mali di ogni società. Senza però che Marx e i suoi seguaci si rendessero conto di riproporre anch’essi l’idea del ritorno messianico, una sorta di Secondo Avvento a cancellazione definitiva dell’oppressione e della scarsità di risorse. Marx non si discostava da un orizzonte sostanzialmente religioso: l’Apocalisse, insomma, con la riapertura per tutti dei cancelli del paradeisos, il giardino conchiuso dell’Eden garantito da mura di fuoco e diamante contro le quali invano si scaglierebbero le forze del conservatorismo, del ritorno all’indietro. In Marx come in Robespierre, il trionfo del Bene contrapposto al Male. Ma non è quest’ultimo, a ben vedere anche il programma dei cosiddetti neocon statunitensi? E non è lecito cogliere, in quel con, alcunché di francese, non solo in senso ironico, ma anche per attinenza a Tocqueville, cioè sempre ai preludi della Rivoluzione francese e ai suoi limiti?
In questa fase interviene tuttavia un’altra considerazione, ed è quella dell’impellenza, della necessità della rivoluzione. E contemporaneamente si profila anche un altro concetto, quello di controrivoluzione, idea che trova per esempio brillante illustrazione nella Montagna incantata di Thomas Mann, dove il personaggio principale, Hans Castorp, tenta di far da paciere tra Settembrini, il laico, il progressista, figlio di un carbonaro, e Naphta, reazionario, ebreo ma anche gesuita, fautore della «rivoluzione della conservazione».
Come dunque interpretare oggi rivoluzione e controrivoluzione? La rivoluzione, ed è la prima evidenza, procede sempre in avanti, è progressista per definizione, risponde alla certezza che il futuro sarà comunque migliore del passato e del presente; si fonda sulla speranza oltre che sull’elaborazione, di continuo reiterata, di teoremi. Alla luce degli scritti di Marx, di Hannah Arendt e di quanti hanno cercato di fornire una definizione attendibile, di indicare vie, modalità, conseguenze della rivoluzione, questa continua ad avere dimensione simbolica, e le sue parafrasi, le rappresentazioni, le traduzioni in eventi concreti, restano necessariamente confinate alle formulistiche ricette circa le modalità di opposizione, contestazione o negazione del Dominio, inteso nella sua tripartizione, potere, religione, guerra, tripartizione che ne riafferma la sostanziale uniformità. La tripartizione, come indicato in un mio recentissimo libro, intitolato per l’appunto Dominio, coi sottotitoli Potere, Religione, Guerra, è riconducibile a un nucleo unitario, a una fase del divenire umano nella quale non erano ancora diversificati né diversificabili agli occhi dei loro stessi inventori. Perché di invenzione si trattò, e fu un processo di lunga durata, parecchi millenni, quanti ne occorsero perché si verificasse quella che a suo tempo l’antropologo e preistoriologo Gordon Childe nei primi anni del XX secolo ha voluto denominare «Rivoluzione neolitica». Un periodo durante il quale entro il nucleo unitario di cui ho testé parlato (ed evito di definirlo originario per le ragioni che andrò esponendo) si delineò una diramazione, una ancora imprecisata distinzione tra le tre componenti, potere, religione, guerra, che andarono via via specializzandosi, a volte entrando in aperto conflitto tra loro. Potere è guerra ed è religione; religione è potere e guerra; guerra è religione e potere: momenti che si sostengono, giustificano, rafforzano, com’è reso evidente dalle guerre di conquista sempre benedette dalla religione; dalla religione identificatasi sempre con la statualità, con il potere; e questo affermantesi con l’eticità giustificatoria conferitagli da dignitari in veste talare.
Può allora esserci una rivoluzione che cancelli questa realtà, da certuni vista come un progresso, con i suoi corollari, l’avvento della macchina, la globalità, la produttività, l’indispensabile o almeno accettabile proliferazione incontrollata degli esseri umani?
Ma le invenzioni neolitiche, stanziamento, agricoltura, allevamento, creazione della zeribà, dello zoo o della sua equivalenza, la chiusura cioè in quegli spazi ristretti che sono le riserve dei nativi nord-americani, degli indios, degli aborigeni australiani, dei cacciatori della foresta, del deserto, del gelido nord, e ancora invenzione della quadratità come espressione edilizia del dominio sulla materia, trionfo della virilizzazione del mondo e dunque dei suoi simboli, il menhir, e del suo interprete in carne e ossa, O Túrannos, il pene eretto (Rex erectus est), il tiranno, il dominatore, il sovrano, e lungo la scala gerarchica il presidente, il manager, il capopartito, il dirigente d’ogni fatta, il comandante militare, il legislatore, all’ombra dei quali resta, nerume sottomesso, la donna, a rivelare che il potere non può non essere antropomorfizzato e comportare la presunta attribuzione di un senso alla vita e alla cultura, oltre a tentare la soppressione del residuo indecomponibile, il Phanes, l’Apparso, il mitico che ogni potere pretende di sostituire con la ratio egemone, quella che si porrebbe in un’aldilà della Parola.
Mi sono già sentito più volte accusare di essermi collocato dalla parte della sylva, del selvaggio, a disprezzo della polis e delle tecnologie intese alla sistematica distruzione del mondo. Aggiungo che ci sono state, e per fortuna ci sono ancora, resistenze tenaci, rifiuti di omologazione, derisione della normalina, droga distribuita a piene mani dagli agenti del Dominio, per fare di tutti noi altrettanto obbedienti, nevrotici soldatini della produzione, militi dell’inquadramento sistematico e obbligatorio.
Mi sto ripetendo, citando da me stesso e da interventi che ho tenuto in questa stessa sede in anni passati. E sempre per citare me stesso, dirò che la mossa iniziale, l’avvio della neolitizzazione di cui siamo gli eredi, i testimoni, gli artefici consenzienti o vanamente immalinconiti, è stato, e continua a essere, lo stravolgimento della Parola. Se ne è negata, e se ne nega, l’originarietà. Si fa finta di dimenticare che noi siamo Parola, che siamo nella Parola, verbale, dipinta, danzata, cantata, accennata, dialogo con noi stessi, o semplice gestualità che sia. Il Neolitico, di cui siamo gli sfortunati eredi, ha tentato la madornale impresa di assoggettare la Parola alla logico-discorsività, alla grammaticalizzazione e sintatizzazione del mondo. In un mio precedente intervento, ho parlato di Millenarismi, i re e i giullari. E ritengo che la rivoluzione possibile, e il rifiuto del Dominio, non possa che raffigurarsi come un rinascimento. Al di fuori di questo, sarebbe concepibile soltanto la rivoluzione intesa come ritorno all’età dell’oro, come un progresso verso un futuro sempre migliore. Ma, per restare ai Rinascimenti, ci si avvede che le cause «concrete» di ogni tentato rivolgimento sono secondarie. Le rivoluzioni sono tutt’uno con i rinascimenti i quali però durano, ahimè, l’espace d’un jour. Le istanze della Rivoluzione francese sono durate dal 1789 al 1799, anno questo che è culminato nel 18 Brumaio e nell’intervento cannoniero di Napoleone. Mi permetto di riferire a questo proposito un episodio. Molti anni fa ho tradotto dal serbo-croato un libro di Milovan Gilas, Compagno Tito. Sono andato da Gilas, che dopo essere stato l’alter ego di Tito, era stato messo al bando perché voleva, à la Trockij, continuare la rivoluzione, e mi ha esposto le sue idee di rinnovamento: rivoluzione come sostanziale rinuncia al potere, quasi fosse possibile una società che non si incentri sul potere. Sarebbe equivalso all’abolizione della società, al ritorno al gruppo preistorico. Successivamente, ho fatto parte di una delegazione dell’Europa occidentale ammessa, anno 1969, alla presenza di Josip Broz Maresciallo Tito, regnante sul trono che fu di Marx. Ho rinunciato a porgli la domanda di Gilas: perché non rinuncia al potere? Sarebbe equivalso a proporgli il seppuku, detto anche harakiri.
Ma torno al concetto di rivoluzione. È ipotizzabile una definitiva metamorfosi, un concreto superamento del Dominio, potere, religione, guerra? Gilas dimenticava che la condizione che ci è prescritta è quella dell’homo affectus, dell’homo patiens, al quale è vietato far sua la sintassi della gioia se non come trudita da lontano, avvertita nei tetri ritmi militareschi della marciante Gioia dell’inno conclusivo della Nona di Beethoven.
L’esperienza insegna che le formule, le ricette di negazione del potere, nel corso dei secoli si sono rivelate incapaci di minare effettivamente, concretamente, la fortezza del Dominio. Sono stati e sono atteggiamenti che sono valsi a rovesciare singoli poteri, senza mai portare al permanente superamento del Dominio. Anzi, sono stati e sono tuttora i distruttori di quel potere, di quel dominio, che si sono affrettati a intronizzarne uno nuovo, e poco importa, a una visione vastamente panoramica, globalizzata, se migliore o peggiore del precedente.
Mi pare, insomma, che le simboliche rivoluzioni siano state finora assai simili, se non identiche, a quelli che ho chiamato i mille rinascimenti. E non mi resta che riaffermare che la libertà della Parola, del mitico, la riscoperta che la Parola è senza origine, e che non è possibile se non a patto di atroci deformazioni ridurla a una realtà extra-linguistica — questa, dicevo, può essere l’unica, effettiva rivoluzione. Nella realtà concreta, abbiamo assistito alla trasformazione della rivoluzione intesa come effetto di azioni soggettive, nelle sue versioni moderne, attuali, per lo più di enormi proporzioni, come è avvenuto per esempio nella Russia del primo dopoguerra. Oggi siamo dunque a quel fenomeno illustrato, con sterminata erudizione mitologica ed etnografica, da Elias Canetti in Massa e potere del 1960. Canetti ha definito il potere un meccanismo paranoico che si nutre incessantemente di morti dal momento che il potere vuole essere l’unico a sopravvivere su infinite vittime, sudditi o nemici poco importa; e la massa è, per Canetti, l’alter ego del potere, il suo ripetitore e amplificatore.
Rivoluzioni, dunque, un tempo di pochi soggetti e un certo numero di seguaci, oggi più spesso di massa. Mi sembra tuttavia, e qui concludo, che noi viviamo piuttosto in un’epoca di feroci controrivoluzioni, riaffermazioni esplicite del Dominio, cioè di potere, religione, guerra. Viviamo in un’epoca di gnosi e di trionfo della morte. Epoca della bomba dell’elicottero e del razzo. Un’epoca in cui non resta che richiamare alla fallacia di facili illusioni pseudodemocratiche e ricostruttive, e non resta che richiamare, me stesso e quanti pazientemente mi ascoltano, a quel residuo indecomponibile che me parla che te parla, che noi parla; e se fosse davvero possibile abolirlo, come pretende la controrivoluzione gnostica, cartesiana e funeraria, non ci resterebbe che la tetraggine, la verbalizzazione del parlante convinto di essersi lasciato alle spalle l’ombra, che pure non cessa mai di inseguirlo, del mitico.