Traffico di animali selvatici – di Renato Massa
Il traffico di animali selvatici è un argomento che suscita forti emozioni e talvolta anche personali convinzioni che non sempre corrispondono alla realtà delle cose. In questo articolo mi propongo di presentare una serie di esempi che illustrino l’enorme varietà e anche eterogeneità di situazioni che si possono presentare nel mondo reale, iniziando dai casi più clamorosi per la loro estrema gravità e concludendo con quelli che tali rischiano di diventare per la loro assurdità. Mi pare d’obbligo prendere le mosse dai casi di alcuni animali le cui popolazioni sono ormai ridotte all’ombra di se stesse, tigre, gorilla, rinoceronti, tutte specie strettamente protette non solo a livello dei singoli paesi nei quali si trovano ma anche dal cosiddetto trattato CITES (Convention for International Trade of Endangered Species) che è ormai in vigore da quasi quarant’anni (1975) e che oggi, purtroppo, mostra chiaramente segni di senilità.
Anzitutto il gorilla, la cui popolazione orientale è presente solo in alcune foreste indisturbate (o quasi) in Congo, Rwanda e Uganda. I gorilla occidentali vivono tuttora in un area di circa 710.000 km² comprendente parti di Nigeria, Camerun, Repubblica centrafricana, Guinea Equatoriale, Gabon, Repubblica del Congo, Angola ed estremità occidentale della Repubblica Democratica del Congo. Le foreste dell’Africa occidentale ospitano la popolazione della sottospecie più abbondante (Gorilla gorilla gorilla, detto localmente waren), stimata fra 40.000 e 80.000 individui. Nel sud della Nigeria, alla frontiera con il Camerun sussiste invece una popolazione di appena 250 individui del gorilla di Cross River (Gorilla gorilla diehli).
I gorilla orientali vivono in una zona più ristretta, di circa 112.000 km², comprendente parti dell’estremità orientale della Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Ruanda. In particolare circa 12.000 gorilla orientali di pianura (Gorilla beringei graueri) sopravvivono in diverse popolazioni isolate nell’attuale Repubblica Democratica del Congo mentre sulle montagne Virunga, tra Congo, Uganda e Rwanda, restano soltanto 600 esemplari del famoso gorilla di montagna (Gorilla beringei beringei), quello il cui maschio adulto diventa canuto sulla schiena (silver back).
Questa specie straordinaria che, come lo scimpanzé e il bonobo, costituisce anche una straordinaria testimonianza vivente delle nostre origini, oltre che un quasi-essere-umano, incredibilmente, è oggetto di un odioso bracconaggio locale a scopo di bush meat, cioè come animale da carne in un continente in cui il consumo di carne è un lusso. In Africa, questa orribile attività non risparmia nessun animale selvatico e negli ultimi anni ha assunto proporzioni incredibili. In alcuni paesi africani è possibile acquistare al mercato carne secca di gorilla o di scimpanzé come se si trattasse di parti di pecore o di maiali.
C’è da dire che il bracconaggio si svolge nelle dense foreste pluviali, oggi rese accessibili per mezzo delle strade costruite dalle grandi compagnie minerarie e del legname. Se e come il problema possa essere eventualmente risolto o almeno alleviato dalle varie organizzazioni locali e internazionali che se ne stanno occupando non è affatto chiaro: gli ultimi Ominidi non umani potrebbero semplicemente concludere la loro esistenza come cibo di Ominidi umani, così come accadde prima di loro anche alle ultime australopitecine.
Un altro caso clamoroso di traffico internazionale è quello del corno di rinoceronte, ritenuto totalmente a torto un potente afrodisiaco dalla ostinata superstizione della cosiddetta cultura tradizionale orientale. Dei rinoceronti esistono attualmente cinque specie, tre asiatiche (Indiano, della Sonda, di Giava) tutte in imminente pericolo di estinzione e due africane (bianco e nero) delle quali solo il bianco può vantare ancora oggi una popolazione dell’ordine delle decine di migliaia di esemplari, quasi tutti concentrati in Sudafrica dove la protezione, fino a poco tempo fa, era ancora piuttosto efficace. Purtroppo, però, negli ultimi tempi, la folle richiesta di polvere di corno ne ha fatto lievitare il valore fino a 60 mila dollari al chilogrammo stimolando l’attività di bracconaggio fino al punto da causare la distruzione di circa 400 rinoceronti bianchi sudafricani nel solo 2012. Pertanto, questi straordinari animali, ultimi testimoni della grande fauna del Terziario, potrebbero semplicemente essere tutti uccisi per l’ignoranza e l’avidità degli esseri umani.
Ancora diversi sono i casi di altri due animali, la tigre e l’elefante africano che oggi sono in preoccupante diminuzione a causa di una mancanza di spazio vitale. Ancora un secolo fa le tigri erano circa centomila, diffuse in buona parte dell’Asia, Siberia, Iran, Pakistan, India, Indocina. Oggi, l’aumento della popolazione umana, la caccia grossa del passato e il bracconaggio del presente, ancora collegato alla produzione di unguenti della medicina tradizionale cinese, hanno ridotto l’intera popolazione a circa duemila individui suddivisi in popolazioni minime di poche decine, sparse in piccole zone protette e nei loro dintorni non protetti dove il conflitto con la popolazione umana potenzialmente a rischio di essere predata è maggiore che mai. Oggi, infatti, l’India conta un miliardo e duecento milioni di abitanti mentre quaranta anni fa, ai tempi in cui il WWF internazionale aveva lanciato la cosiddetta “operazione tigre”, la popolazione umana raggiungeva appena i seicento milioni!
Passiamo ora agli elefanti, dei quali oggi esistono due specie, una asiatica con una popolazione complessiva non superiore ai duemila individui e una africana con una popolazione di mezzo milione di individui. Non pochi, dunque, e allora perché mai preoccuparsi tanto del loro futuro? La risposta è semplice e, al tempo stesso, inquietante: soltanto venticinque anni fa la popolazione continentale degli elefanti africani era ancora di un milione di individui, esattamente il doppio di quella attuale! Proseguendo su questa strada, il futuro del più grande animale terrestre attualmente vivente è più che mai incerto! Tuttavia, nessuno può essere tanto ingenuo da pensare che il bando del commercio dell’avorio possa fermare o anche soltanto limitare il declino dell’elefante africano. In realtà, il dimezzamento della popolazione corrisponde abbastanza bene alla drastica riduzione dell’habitat disponibile in Africa dove, negli ultimi quarant’anni, la popolazione umana ha continuato a crescere con il ritmo del 2,3 per cento all’anno, passando da 500 milioni circa a un miliardo. Se questo ritmo dovesse essere mantenuto, in Africa, nel 2100, ci sarebbero 3 miliardi di abitanti e presumibilmente un numero infimo di elefanti, bando o non bando dell’avorio. Ciò che sta accadendo in Africa è semplicemente ciò che è già accaduto nel passato in Asia e in Europa dove oggi l’aumento demografico è più modesto (1% circa, Asia) o addirittura nullo (0% circa, Europa) e la grande fauna è ridotta a popolazioni minime.
Una protezione adeguata può essere efficace solo se l’habitat della specie in oggetto viene adeguatamente preservato. Per questo, il bando della caccia alla balena in Giappone può essere efficace per il recupero delle popolazioni di balene fortemente ridotte dalla caccia, beninteso a condizione che non si esageri con la sottrazione del loro cibo (krill), attualmente pescato in misura massiccia sia per la produzione del cosiddetto surimi sia per la produzione di cibo per gatti, un autentico flagello dei nostri tempi che contribuisce all’aumento delle popolazioni feline domestiche a spese di quelle di balene, uccelli marini, foche e otarie. Diversa è la situazione dell’orso polare che, anche se formalmente protetto, soffrirà necessariamente della riduzione della banchisa legata al riscaldamento globale, fenomeno che già oggi incomincia a impedire a questi grandi carnivori di muoversi in modo adeguato tra i loro quartieri estivi e quelli invernali.
In queste condizioni ci si domanda quale sia la funzione attuale del trattato CITES che recentemente è stato criticato anche da Greenpeace, organizzazione ben nota per il fatto di non avere peli sulla lingua nei confronti di nessuno. Ebbene, è triste da dire ma oggi la principale funzione del trattato CITES sembra essere ormai non già proteggere le specie che, presto o tardi, possono rischiare l’estinzione ma piuttosto garantire una certa misura di quote legali ai commercianti.
Per esempio, può apparire strano che al giorno d’oggi la cosiddetta caccia grossa faccia ancora cassetta ma è pur vero che i paesi africani che chiedono l’abbattimento legale di fauna autoctona per farne trofei da vendere sono tuttora una dozzina e che le specie coinvolte nell’anno 2011 erano l’elefante (circa 2000 permessi concessi in 7 paesi), il leopardo (ancora circa 2000 permessi in 10 paesi), l’ippopotamo (1200 permessi in Tanzania), e ancora il pappagallo cenerino (9000 individui catturabili legalmente nel Congo Brazzaville e Congo Kinshasa), il pappagallo di Jardine (3000 individui, Congo Kinshasa) e il pappagallo del Senegal (8000 individui, Senegal). Si noti che questi sono i prelievi ufficiali più massicci che attualmente si abbiano in tutto il mondo per questo gruppo di uccelli: in Sudamerica e in Asia, i prelievi di pappagalli non sono cessati ma almeno sono stati fortemente ridimensionati. Peggio ancora vanno le cose per i rettili che ci rimettono la pelle in numeri massicci: contando solo gli animali uccisi legalmente per la pelle abbiamo 5000 coccodrilli in Botswana, 10 mila varani e 50 mila pitoni in Benin, 80 mila varani in Ciad, 20 mila caimani in Guiana, 10 mila coccodrilli in Malawi, 4500 cobra in Malaysia, 43 mila iguane in Suriname, 60 mila pitoni e 30 mila varani in Togo. Tuttavia, il paese che ha i numeri più impressionanti è l’Indonesia: 20 mila coccodrilli, 135 mila cobra, 200 mila pitoni, 90 mila colubri (Ptyas) e 426 mila varani, senza contare le 50 mila tartarughe d’acqua dei generi Amida e Cuora usate per la zuppa.
Per quanto riguarda le tartarughe, a fronte della massiccia produzione in cattività di piccoli di tartaruga dalle zampe rosse in Colombia (3500), c’è purtroppo da constatare che in Uzbekistan si raccolgono ancora ben 40 mila tartarughe di Horsfield in natura contro le 30 mila prodotte nello stesso paese in condizioni controllate. Questo è uno sciagurato effetto collaterale della eccessiva burocrazia che oggi rende difficoltosa la detenzione e la riproduzione delle tartarughe indigene dell’Europa che pure sono disponibili in un immenso numero di individui nati in cattività (sospetto peraltro che quelli non ufficialmente denunciati a causa della burocrazia stupida e feroce siano molto più numerosi).
Ancora esistenti ma di minore entità appaiono i prelievi di pappagalli in Sudamerica mentre piuttosto preoccupanti sono quelli dei camaleonti in Africa e in Asia, molte decine di migliaia di molte specie. Nel complesso, si ha l’impressione che il principale motore del trattato internazionale CITES sia la buona volontà nazionale di alcuni paesi e che i burocrati che dirigono la baracca si preoccupino piuttosto di non scontentare nessuno. Accade perciò che, a fronte dei massicci prelievi ufficiali che avvengono in molti paesi, si pretenda di far valere il trattato con una poliziesca e accuratissima contabilità degli animali che nascono in cattività. Mi pare evidente che qui ci sia qualcosa che non va e stavolta, per fortuna, non sono solo io a dirlo. Speriamo in bene per il futuro.
Renato Massa
Goraiolo, 4 marzo 2013