Copertina di Lisa Rampilli e Francesco Muscente
IL LUSSO
Il lusso, Oh! Il lusso! Ma di cosa si tratta esattamente se lo cerco in modo tangibile senza che arrivi un flusso di parole intriganti catturate dal malinteso? Credi di sapere, ma se ti interroghi già il sapere si fa evanescente. Lusso, crediamo di conoscerlo, oppure di goderlo, di sentirlo, di afferrarlo… Eppure, eppure…qualche dubbio s’insinua nella nostra regolarità, nella nostra credenza abitudinaria. Che sia forse per via algebrica che lo si possa definire? Qualche geometrico luogo deputato ci potrà aiutare a individuarne i siti? Che cos’è necessario e cosa superfluo? La divina Necessità in che modo s’innamora dell’Eccentrico, del suo amante Libertino: il grandioso, l’elegante, l’eccedenza, il residuo? Un ossimoro: la necessità del superfluo, eppure ci tocca in ogni istante confrontarci con un artificio metastatico che pretende insinuare la conflittualità delle parole, parole che invece si dispiegano in armonica differenza, in racconti musicalmente ritmici, e non esattamente coerenti. Eppure… Eppure… di questa dissertazione delle piogge e dei venti, del dolore e della morte, dove ciascuno narra la sua leggenda, la sua saga, la sua avventura, della felicità e del riso, il superfluo sempre ci sfiora, ci lambisce, ci tocca, ed è per noi impossibile evitarlo, anche durante uno strazio, anche nella più estreme delle disperazioni. Nulla è scansabile del lusso in cui la vita trionfa insieme alla morte. Infatti, entrambi i termini partecipano del lusso per esibizione e per superfluità: un fasto la vita la cui vacuità appare nella morte, un trionfo che non è sulla morte come noi pretenderemmo che fosse. L’ignoto non può essere negato e neppure affermato, senza divenire un manifesto del ridicolo, ontologicamente fondato sul pregiudizio.
Il superfluo è necessario? I due termini in che relazione stanno tra loro? Il necessario e il superfluo? Cosa definiamo superfluo e con quali criteri? Il lusso e la lussuria sono essenziali oppure superflui? E in cosa consiste esattamente il lusso?
Un intrico di definizioni apparentemente assurde attraversa la nostra cultura per renderla agibile, percorribile per larghe strade virtuose e condannabile negli oscuri vicoli del vizio, ma entrambi i cammini s’incontrano al crocicchio, in quella croce che diviene simbolo di apertura, di interrogativo ingiudicabile. Il peccatore e il santo sulla stessa via della vita, del lusso elogiano la sua virtù suprema, quella dell’esser semplice vita. Null’altro che vita, a cui a noi è data l’occasione di celebrare e ringraziare non potendo esimerci dalla necessità del superfluo. Destino della parola, sua affermazione residuale, su chi pretende di possederla e governarla a suo piacimento e scopo.
Lusso, da luxus che vuol dire esuberanza della vegetazione, indi in metafora abbondanza di cose deliziose, e il giardino delle delizie è già una riduzione semantica del termine nella sua forma originaria.
Galeotto l’etimo e la variazione della parola che narra di un lusso originario che nulla ha a che vedere con ciò che l’uomo può produrre a suo piacimento. Il lusso sarebbe, attenendoci alla vaganza delle parole da una cultura all’altra, da una scrittura all’altra, una condizione mitica originaria, non riconducibile alla padronanza degli oggetti, della parola fatta cosa, non asservibile/osservabile con una lente razionale di precisione.
E l’ossimoro che il lusso in sé racchiude, balza fuori dai dizionari etimologici e si dispiega nel suo implicito equilibrio, l’essenziale è un superfluo necessario, e dunque il lusso è irrinunciabile per ciascuna vita, in barba a tutti coloro che della razionalità hanno fatto uno strumento di potere per mortificare e negare la vita nella sua manifesta magnificenza. Potrebbero gli umani smettere di cantare, di danzare, di ridere, di amare e amoreggiare? No, non potrebbero, è già in questo è narrata la vicenda del superfluo secondo una retorica della necessaria sopravvivenza che ci vorrebbe eternamente sofferenti, piegati, servizievoli rispetto ai pochi ai quali il lusso sarebbe destinato attraverso la rappresentazione gerarchica di una vita fatta cosa, oggetto possedibile e scambiabile.
L’etimologia del termine lusso, infatti ci dice leggendo i dizionari, che il termine può anche alludere al greco loxo-os, obliquo, piegato da una parte, indicando in qualche modo il vizio della prodigalità proprio delle persone viziose, profusione e superfluità di cose sontuose. La magnificenza avrebbe una valenza virtuosa (magnificenza negli abiti, nella tavola, nella casa). La magnificenza è virtù, e differisce dalla sontuosità per maggiore splendore e maestà, mentre la sontuosità ha una valenza viziosa: abitudini nello spendere eccessivamente in cose atte a mostrare grandezza, tranne, ovviamente, nei casi in cui la sontuosità è “alcune volte plausibile, potendo procedere da circostanze imponenti, che la richiedono”. E dunque a seconda di chi pratica la sontuosità avremo un classificazione del lusso in negativo o positivo.
Il termine lusso è strettamente connesso alla lussuria con cui condivide la radice lux, e anche in questo caso la sua radice indica splendore, luminoso rigoglio della vegetazione, opulenza dei frutti e, anche in questo caso, l’elemento primario legato alla vita viene negato, piegato e rovesciato in un valore negativo, e diviene esuberanza di appetiti sensuali e superfluità di cose deliziose. È interessante scoprire nella storia delle parole come il rovesciamento dei loro insiti valori semantici abbia prodotto una morale sociale volta a propagandare la privazione, la mortificazione della vita, come prerogativa di elevazione e salvazione umana. Più ci si mortifica più ci si eleva? Davvero la sofferenza, il produrla, l’infliggerla, il subirla è fonte di salvazione spirituale?
Il lusso sarebbe dunque un’eccedenza e un’eccezione, un destino per pochi eletti che a loro piacimento decidono quando e come il lusso intervenga nei loro domini? E un lusso concepito in tale modo già non è più un lusso, ma uno spreco. Giorni di festa, giorni di lavoro, il festivo e il feriale, rigorosamente divisi come il Carnevale e la Quaresima. Ma il lusso non può nemmeno essere definito attraverso la festa prescritta, tranne diventare un dovere e, a sua volta, un giogo colmo di obblighi. Non di rado le vacanze estive sono regolamentate come il lavoro.
Il lusso è la non finalizzazione di ciò che facciamo. È un atto non finito, l’indefinito non ipostatizzato e dunque qualcosa che partecipa dell’infinito in atto. Sia per l’aspetto che riguarda l’oggetto, sia la relazione che il tempo. La rappresentazione del lusso, la sua oggettivazione sia nelle cose che nel tempo, – il tempo della festa- sono la negazione del lusso stesso. Non si può definire letteralmente che cosa sia il lusso, indefinibile come la differenza che costituisce la vita.
Il lusso rappresentato nel potere, nei dominatori, nei personaggi, nelle appartenenze, diventa idolatria, una passione, un pathos non privo di gravi conseguenze che riguardano il dispregio, la distruzione, lo spreco, per mezzo di una rappresentazione della corruttibilità e della corruzione. La prostituzione è l’emblema di una siffatta concezione. Concezione che conduce a teorizzare e impiegare lo strumento conflittuale per risolvere l’incontrollabile, perché il superfluo eccede anche la dialettica, la rende inefficace.
La vita non è comprabile e neppure contabile e se la sopravvivenza punta sull’esclusione del lusso castigandolo, il vivere azzarda il lusso come inalienabile. Come togliere il lusso se non condannando la vita a essere unicamente pena, minaccia, miseria, paura? Qualsiasi dittatura è consapevole che in siffatte oppressioni arrivano le rivolte. Il lusso di vivere, la libertà del vivere, non possono essere confiscati, sono inconfiscabili perché gli oggetti che noi raffiguriamo come segni-sostanza del lusso sono effetti concreti di un’aleatoria, estrosa, disposizione inventiva umana che comunque trova mezzi e modi per esprimersi: gli autori trecenteschi, e anche quelli a seguire fino ad oggi, di composizioni lussuriose (Dante compreso) erano frequentemente grotteschi e beffardi tesi a sottolineare come la superfluità fuoriesca da tutti i pori, anche da quelli della Santa Inquisizione.
Il lusso è senza abitudine, senza passione, senza pathos. Senza soggetto del lusso. Senza oggetto del lusso. Senza tempo del lusso.
La razionalizzazione del lusso è la discorsività della festa, nell’accezione istituzionale di differenziazione tra festivo e feriale, nettamente separati e messi in contrapposizione. Arte, gioco, invenzione, tempo, separati nell’accezione descrittiva al punto che ad essi possa essere attribuito il positivo e il negativo, lo sfarzo, il superfluo, oppure la sua assenza. Il bisogno del sovrappiù e la sua mancanza. Il lusso è l’atto della grazia, il superfluo. Ed ecco che il lusso diviene eccezione, diviene segno di relazione sociale, di moralizzazione sociale, sia che sia attribuita all’oggetto o al tempo. Diviene elemento attribuibile al paradiso, mentre altri vivono all’inferno, sempre considerato come lusso, dunque, il lusso con annessa espiazione.
Tutto ciò di cui si discorre in merito al lusso riguarda la disquisizione sulla festa.
Darsi il lusso, pagarsi il lusso, offrirsi il lusso, concedersi il lusso è il segno del successo o il segnale dell’imminente caduta nell’insuccesso, la credenza nell’Età di Pericle, o nell’Imperium Romanum, epoche queste che al loro apogeo avrebbero coltivato il germe malvagio e corrotto del conseguente declino? Sarebbe dunque il lusso la condizione in cui lo Stato si perde smarrendosi in basse costumanze e procedendo verso l’inesorabile decadenza? Un mitologico animale fantastico che animandosi nel lusso, poi secondo la credenza procede verso la sua devastazione per incenerirsi e rinnovarsi. La renovatio della Fenice, che risorge dalle proprie ceneri. Una mitologia che pone il male e il bene nell’esperienza, nel fare, lo declina in positivo e in negativo opponendoli, dove solo la morte permette la rinascita, azzerando le risorse perché lo zero non funziona. Credenze queste che fanno parte integrante della nostra cultura e che sviliscono le risorse ideative e il proseguimento in altri termini di una condizione raggiunta. Se credo nell’Araba Fenice non ci saranno aperture, novità, ma ripetizione di una credenza arcaica che ritiene il lusso non durevole e se durevole sempre a discapito di altri come recita la litania dell’invidia sociale. Come se il lusso fosse un oggetto, o un tempo, riflesso in uno specchio speculare anziché impertinente, nel quale lo status quo è una permanenza inossidabile, non sottoposta a mutevolezza e cambiamento.
Sarebbe, quindi, il lusso, la smodata brama di agi superflui e pomposi causa della corruzione e del declino di una nazione destinato a travolgere tutti i cittadini indipendentemente dalla loro condizione economica. Ricorre infatti, nelle nostre convinzioni il concetto di corruzione, di rottura, di malattia. In breve, il lusso è suddiviso fra beneficio e maleficio. E l’aspetto più sconcertante è che noi non elaboriamo le nostre credenze intorno al lusso, attribuiamo al lusso stesso la prerogativa di divenire il vaso di Pandora. Non ci chiediamo come funziona il potere nelle sue rappresentazioni mortifere intorno al lusso, crediamo pedissequamente che il superfluo e il lusso siano demonizzabili o santificabili come fossero piovuti nei nostri pensieri dall’iperuranio.
Nella tradizione occidentale il concetto di lusso è sempre stato associato ad un’idea della festa, infatti, per questo lusso obbiettivato e proiettivo vale la legge della prescrizione e della proibizione, del permesso e del divieto. Di chi se lo permette e ne gode e chi no. Lo stesso vale per chi si salva e per chi è perduto. Ed è questa superstizione il motivo della spropositata assenza collettiva di ragionamento, anzi, vi è rassegnata adesione, quando si tratta di subire le peggiori distruzioni di quanto costruito da parte dei tiranni del momento.
Il lusso attiene il dispendio oppure spreco? Il lusso è stato associato alla lussuria. La lussuria sarebbe una passione? Che cosa avrebbe a che fare la lussuria con le passioni, con la pazienza, con la sofferenza, perché quando parliamo di pathos, non stiamo parlando di lusso, ma di sofferenza. La lussuria non ha nulla a che fare con la sofferenza. Impossibile abituarsi al lusso e alla lussuria, perché non sono a portata di mano, non si lasciano afferrare, tantomeno definire. E dove sta? Non certo in un magazzino di provviste, anche se per mezzo della carestia i sistemi totalitari dominano e uccidono, e rendono realistico il lusso canonico. Se non ho nulla da mangiare, un tozzo di pane sarà già un lusso. E questa è la credenza che fa precipitare intere nazioni nelle peggiori condizioni umane. Quindi, il lusso non si può comprare anche se dalle vetrine ammiccano gli oggetti feticcio di quella lussuria che simbolicamente nel denaro trova un’espressione di controllo, di regolamentazione razionale.
Il lusso viene sempre classificato come ineguaglianza di beni, la fortuna diseguale, se in uno stato le ricchezze sono egualmente condivise non ci sarebbe lusso, e dunque il lusso sarebbe un segno, un metasegno della differenza. Questa è l’utopia: l’assenza di lusso forgiata sull’eguale sociale, sulla giustizia distributiva e su quella che viene chiamata ormai, con formula liturgica, l’equa distribuzione o l’eguale distribuzione dei beni o, con un’oscillazione, delle ricchezze. Ancora una volta vengono riproposti i concetti di naturalità e necessità. Anche le formule che intervengono a questo proposito – godere del lusso – il senso del lusso – il sapere del lusso – dicono che il consenso o il senso comune sono dati da una comune economia del lusso. L’utopia razionale favoleggia l’assenza del lusso. Come se il lusso fosse una entità contrattabile, conquistabile, comprabile o acquisibile in qualche modo, come se fosse cosa o oggetto per noi dimostrabile. Il lusso non è assumibile in alcun modo, e la moda ne fa una parodia giocosa.
Il lusso, invece, poggia sulla differenza, quella radicale, non di alto e basso, affamato e saziato, ma quella in cui ciascuno trova mezzi e modi per fare a seconda della sua particolarità. Libero di fare. Fischiettare per strada è assolutamente superfluo, eppure lo facciamo, ma ci sono sistemi in cui anche fischiettare per strada potrebbe apparire un modo sovversivo di attrarre l’attenzione.
Chi può rivendicare il monopolio del lusso e della lussuria per fare economia, e contabilizzare la differenza. Ognuno è tentato dal significare il lusso e la lussuria, per dire che si trova o in una preclusione del lusso, oppure che è qualcosa di ideale da aggiungere o che è qualcosa di eccezionale, da vivere nelle feste comandate.
Il bisogno di lusso. La ricchezza non sottostà all’uguale, ma alla differenza, ciascuno è ricco, originariamente ricco. Ma per ciascuno la ricchezza varia in qualità e quantità. Pretendere di misurarla e compararla è una faccenda che nella nostra cultura ahimè! poggia sul principio della rivalità e della guerra.
Il lusso è lo spirito, di quello spirito che opera, affinché la lussuria si scriva. Così che la degradazione del lusso, la degradazione del tempo, la degradazione dell’avvenimento, la degradazione dell’Altro, non riescono.
Il fantasma di padronanza, di potere, intorno all’impresa, alla città, al fare, alla finanza non riesce, non riesce a costruire una certa rappresentazione mortale del mondo che si metamorfizza nell’androginica indifferenza, togliere di mezzo la differenza di ciascuno inserendolo nell’ideologia delle masse e del popolo.
Irrinunciabile il futile e il frivolo. Il futile e il frivolo sfuggono a qualsiasi mentalità, a qualsiasi moralizzazione dell’impresa, a qualsiasi concezione morale o legale del rischio. La pretesa di rendere realistico il giardino, il Paradiso, lo rende un luogo per iniziati al potere, un luogo per solo pochi eletti, negando in tal modo l’invenzione e l’arte a cui occorre libertà di fare. Il paradiso non è reale, quindi non è possibile né impossibile, né probabile, né pensabile. Sta nel fare, in quel che in altri termini si chiama dispositivo pragmatico. Condizioni del fare. Lì c’è abbondanza, lì c’è il lusso. Lì c’è bellezza. Per effetto e non per causa. Il lusso è proprietà del tempo. Discutere della vanità, del lusso, dell’aumento, dell’abbondanza, è discutere di qualche cosa che è inconcettuale (non c’è soggetto del lusso, soggetto dell’avere o del non avere, non rientra nel sistema morfologico dinamico, nella genealogia, non ha bisogno dell’appartenenza né dell’origine), perché non può rientrare nella logico discorsività come tale. L’accezione comune di lusso presuppone il soggetto e la soggettività. Invece, il lusso è senza finalismo. Importa, invece, dissertare dell’originarietà della parola.
Il lusso interviene quando c’è libertà di fare e questo fare non è ordinario e neppure ordinale. Questo è il bello della differenza, il suo lusso, la sua lussuria. Chi può togliere il lusso? Chi può confiscare il paradiso? Chi può togliere qualcosa all’infinito attuale? O aggiungere? O sottrarre? L’algebra rispetto all’infinito attuale, non tiene. E nemmeno la geometria. Come facciamo a fare la geometria dell’infinito attuale? E l’infinito e l’eternità, come il lusso, sono proprietà del tempo. Nessuno toglie nulla all’altro Altro. Questo non è ciò con cui ci confrontiamo tutti i giorni, tutti giorni viviamo di conformismo credulo-fabulistico e di nessuna fanatsia, questa è invece, la partita che ci troviamo dinanzi.
Il diritto dell’Altro è anche diritto al lusso, alla differenza. Nessuno può rappresentare il nostro limite. Ogni volta che rappresentiamo e ci rappresentiamo l’altro, definiamo il nostro limite, la porta si chiude e interviene il lasciare perdere le cose, lasciarle morire, lasciarle distruggere. Come sapeva anche Omero “le porte del cielo si spalancano da sole”, inutile la nostra pretesa di chiuderle.
Di superfluo gioiamo, sorridiamo, raccontiamo, cantiamo, culliamo un infante; il superfluo ci è indispensabile, “Non di solo pane vive l’uomo” sta scritto nel Vangelo, e dunque lo spirito partecipa dell’altro, del superfluo, dell’inconoscibile… Abbiamo bisogno del superfluo. Il superfluo è l’arte, l’invenzione, la cultura, l’intelligenza, la musica, il malinteso, il riso… Tutto ciò partecipa al superfluo, a quanto non può essere misurato, misurabile, quantificabile.
Come può istaurarsi il lusso sul principio della contabilità, della calcolabilità, della misurabilità del tempo, partendo dall’idea di fine del tempo e di finalizzazione delle cose. Quale piacere potrà mai esservi nel partire dalla fine, nel dare la fine per scontata, tranne trovarsi in un piacere che è già una tremenda pena. La giustificazione della finanza è partire dalla fine dell’impresa e della città. I risultati sono palesi. Chi crede nel potere è il primo negatore del lusso, il potere seppure apparentemente esibisca il lusso, in realtà è spreco, è spropositato esibizione di spreco.
Il lusso comporta il rischio d’impresa. Il rischio della riuscita. È il rischio senza nessuna idea di alternativa, senza inserirvi l’ideologia della fine e del pericolo di morte. Nel pericolo di morte noi abbiamo già messo nel conto, nel calcolo, nella previsione, il negativo, il fallimento, lo sfacelo in alternativa alla riuscita. In questi giorni si legge sui giornali un’inquietante dichiarazione di un alto funzionario del governo europeo che declamava un: “ O la va o la spacca”. Davvero eloquente, e dunque come appariamo noi in questo caso? Come chi dice che affronta il pericolo di morte, e allora si permette il lusso o se lo vieta. In questo modo manteniamo la presunzione di conoscere l’avvenire, ci fondiamo sull’eccellenza gnostica, ça va sans dir, sulla conoscenza. Qual è il risultato apparente? Che noi siamo ottimisti, o pessimisti. Per così dire l’ottimismo più radicale è quello che iscrive in toto l’avvenire negativo nel proprio conto, nel proprio calcolo, e nella propria preveggente visione, e non coglie nessuna sfumatura, nessun dettaglio, nessun equivoco, in breve nessun elemento altro, che rischi che qualcosa di inatteso avvenga.
Il rischio non ha alternative al farcela, all’inventare un modo, a non perdere. Il rischio è una proprietà del fare secondo l’occorrenza: il fare che proviene dall’idea dello spirito. Il si fa e, facendosi, riesce, e si compie nella qualità.
Sant’Agostino in un brano del De Trinitate, scrive che la conoscenza è la presunzione. La presunzione non è l’assunzione, la presunzione nega la relazione come inconciliabile, come differenza. Sant’Agostino scrive che la conoscenza è presunzione. È una tumescenza degli umani la presunzione di conoscere: nessuna conoscenza di dio, né dell’Altro. La conoscenza è la presunzione. Da qui il lusso del tempo.
Abbiamo bisogno del superfluo per non dimenticarci, per sentire la parte più autentica di noi stessi. Quindi il lusso diviene vivere e non sopravvivere.