Il fascino minimal della libertà. Intervista a Francesco Patriarca – di Fabio Carnaghi
L’essenzialità è il minimo del lusso ed il suo più ambìto approdo. Francesco Patriarca ha la straordinaria capacità di muovere alla libertà progetti che divengono osservazione del micro rispetto al macrocosmico, in cui il naturale agisce da suggerimento percettivo per approdi il cui limite è dentro, oltre e al di fuori del reale: una metonimia che privilegia costantemente l’astratto per il concreto ed una sinestesia ecumenica in cui si colloca la poliformità del medium espressivo.
Birds by the hand è un’installazione sonora in cui lo spazio che invita alla visione interagisce con il segno che rimanda al gesto e con il suono che aiuta a migrare verso la libertà.
Fabio Carnaghi: Fotografia, disegno, pittura e installazione e poi la natura, lo straniamento, l’intimismo e infine la presenza-assenza. La trasversalità che cos’è?
Francesco Patriarca: La trasversalità rappresenta per me la possibilità di far convivere diverse tecniche e le modalità dell’essere che hai sopra elencato in un unico grande progetto autobiografico. Il lavoro, il suo procedere trasversale in tempi più o meno lunghi, riflette la complessità del vivere e del confrontarsi con la sua rappresentazione in chiave personale. Per fare ciò non esiste una formula né una tecnica a cui essere fedele, bisogna restare aperti al cambiamento e sopratutto essere disposti a mettersi in gioco anche quando gli esiti sono molto incerti. Talvolta, credo che sia proprio questa incertezza a dare i risultati più interessanti.
F.C. Birds by the hand mette in luce una relazione interessante tra la riscoperta del medium pittorico e la gestualità performativa. In che modo interagiscono questi due elementi?
F.P. Questo progetto realizzato nell’ambito di Art Platform a Los Angeles è una riflessione proprio sulla gestualità della pittura. Un quadro può essere formato da migliaia di gesti e segni che, tutti insieme, portano in luce una visione che trascende la singola pennellata per diventare qualcosa di più grande e complesso. In questo lavoro invece, i gesti ed i segni sono stati isolati, resi autonomi sulla carta. Ho lavorato evidenziando la casualità e l’errore e ciò mi ha permesso di riscoprire la bellezza di un singolo gesto e le infinite possibilità che questo racchiude in sé. Solo successivamente il lavoro è diventato un ‘installazione in cui sono entrati in gioco l’elemento sonoro e lo spazio circostante. I due elementi più transitori e immateriali come lo spazio ed il sonoro sono dunque ciò che completa il lavoro come insieme coerente di significati.
F.C. I temi della migrazione e della libertà espressiva fanno parte della tua arte nel senso allusivo del passaggio e della transitorietà, ma anche del vagheggiamento di una meta. Verso quale altrove?
F.P. E’ vero che in tanti miei lavori c’è un’idea di movimento, di passaggio. Forse è la percezione del tempo che mi interessa portare alla luce, il tempo interno delle cose e della vita, quello che non si percepisce ad occhio nudo immediatamente come l’invecchiare di determinati oggetti o i mutamenti ambientali più o meno alterati dall’intervento dell’uomo. Questa forza segreta è dietro ogni cosa ed il suo scorrere inesorabile non dipende certo da noi che possiamo solo decidere se ascoltarla o meno. Il vagheggiamento di una meta è una costante forza propulsiva, questo luogo immaginario e reale insieme assume sempre sembianze e caratteristiche diverse ed è per questa ragione che per dare spazio alla sua esistenza nella nostra vita bisogna lavorare tanto e lasciare che questa grandezza si apra sempre di più fino ad occupare l’intera esistenza. Per quanto mi riguarda, credo che questa meta sia soprattutto uno spazio di ascolto e di apertura, di vigilanza presente e costante sulla realtà che ci circonda.
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