Piscine- di Omar Cerchierini

Meditazione in piscina

Sabato 2 luglio

Ore dodici

 

Sono seduto al tavolo di un caffè a lato della piscina, al settimo piano dell’Ascott, un lussuoso “condo” per stranieri in carriera nella capitale. Palme, alberi con fioriture porpora, cascatelle, gazebo e ristorante sul roof. Sono qui perché N. ha lezione con un certo Mr. Jadeson, un americano che vive a Bangkok e lavora tra la Thailandia, Chicago e l’Australia. Ha pagato la scuola di N. per avere lezioni private a domicilio.

Bevo un caffè nero, fumo una sigaretta mentre aspetto. Non c’è nessuno. Solo due camerieri che si muovono silenziosi tra i tavoli. Vento caldo. Musica lounge a basso volume. Tutto è così ben studiato per il piacere standard del farang ricco o arricchito che il mio caffè viene infatti a costare centodieci bhat, circa due euro e settanta. “Farang” è la parola con cui i Thai chiamano gli stranieri bianchi. Farang che a Bangkok vivono la seconda occasione della loro esistenza. Alcuni se ne giocano l’ultima chance. Altri ancora, sulla base di un semplice calcolo di convenienza, sanno che il loro buon stipendio in patria diventa un ottimo stipendio a queste latitudini.

Ieri sera eravamo fuori a cena, ospiti di Bruce e del suo compagno. Bruce è stato un allievo di N. È un avvocato americano, che ha lavorato in Malesia nel settore legale di un’azienda ed adesso è in pensione. È sulla cinquantina e da circa sei anni vive a Bangkok con il suo compagno, che di anni ne ha venti di meno. In America ha lasciato la moglie, da cui è divorziato, e due figli. A cena siamo in questo ristorante giapponese piuttosto mediocre ma dove finalmente beviamo vino, uno Shiraz australiano molto buono. Al cambio, la bottiglia risulterebbe sui cinquanta euro. Bruce dice che per lui non è stato affatto difficile ambientarsi a Bangkok (un posto “dove c’è qualcosa da fare ogni giorno e dappertutto”), dal momento che lui viene dal Texas: “Sai,” mi dice “qui, come a Austin, si tratta sempre della solita cosa: passare dall’aria condizionata del salotto a quella dell’auto a quella dell’ufficio.”

 

Ore diciassette

Ancora in attesa, questa volta nella piscina al decimo piano del “39 Place”, nel ricca zona di Sukhumvit dove N. ha l’ultima lezione della giornata con il signor. Nakanishi. Al fondo della via, la casa dell’ex primo ministro. Il portiere mi consente di salire, scortandomi all’ascensore e sbloccando la salita con una carta magnetica dopo aver digitato un codice segreto. È molto divertente – mi dico, mentre in tre secondi raggiungo il piano dove si trova la piscina e la palestra e la sala da ping pong – non avere i soldi neppure per arrivare a fine mese, e fare il turista imbucato nel lusso più kitsch di questa città onirica. Siedo in un gazebo e osservo il pavimento in minuscole piastrelline di porcellana iridescente disposte a mosaico. Le lanterne, che mandano una lieve luce dorata tra le plumerie in fiore, sono già accese. Anche qui non c’è nessuno. Sfilo dalla borsa il grosso volume delle Lettere dall’Africa di Karen Blixen e ritrovo, tra le pagine, un foglietto di carta su cui ho trascritto a matita una poesia. La leggo ancora. Ci sono due versi che mi restano in testa e mi rendono, in qualche misura, triste. I versi recitano:

 

Le parole sono nelle storie che mi hai fatto vedere.
Quanto non è mai visto, e quanto non si dice oggi!

 

In tutto questo strapotere del visibile, si riesce alla fine a dire molto poco: le storie vivono invece di parole. Il mio non-amore per il cinema, penso, nasce proprio da questo fastidio per l’incantamento che produce l’immagine, che non ci porta molto lontani dalla suggestione della lanterna magica(lo diceva Junger). È addirittura obsoleto sottolineare la pericolosità e i danni che questo ha prodotto in tv.

In thailandese cinema si dice nang, che vuol dire pelle – italiano: pellicola – perché nella tradizione esiste questo spettacolo in cui le storie sono raccontate proiettando su una parete le ombre prodotte da una pelle di bufalo conciata e traforata. Siamo appunto sempre lì: l’onnipotente malia delle ombre proiettate sul muro, gli spettatori che fuggono all’arrivo del treno dei fratelli Lumière…

Ma che cosa mi rende triste? Forse anche pensare a quanto, con N., non è detto nella confusione dei linguaggi? Lost in translation? Ma non solo qualcosa è per sempre perso nella traduzione: forse noi stessi lo siamo?

Poi, guardo il muro di nuvole nere e viola che si avvicina, mentre il vento soffia sempre più forte. La stagione delle pioggie è al suo culmine.