Kitschler, il fantasista- di Francesco Saba Sardi

 

Non tutti i numeri del suo repertorio erano originari. Alcuni glieli proponevano caudatari e affascinati. Ma diventavano suoi per autorevolezza. Come si compete al padrone. A vincere – e mai perdere – era lui, il fantasista.

Certi numeri

Sua, dunque, l’idea dell’allegra parata che si svolgeva sulla piazza d’appello dei molti campi di concentramento che costellavano la Grande Gennaia.

Buchenwald, di cui siamo stati obbligatori ospiti, ci serva da modello.

Verso l’alto portone coronato da una pesante merlatura, muoiono al passo file di cenciosi operai, arginati dalle fauci dei pastori alsaziani, duramente trattenuti dagli SS “testa di morto”; a dare il ritmo, è una banda di internati un po’meglio nutriti degli altri, in divisa di cacciatori o di musicanti da circo: giacche verdi con alamari, calzoni di velluto, stivaloni lustri, baschi spavaldamente piantati di sbieco. Ecco, un Kommando è uscito dal portone, e subito gli strumenti restano immobili come fucili al preset’arm, gli ottoni non emettono luccichii all’aria frizzante, quasi nera ancora alle spalle del colle rivestito da scuri faggi, e la piccola troupe dei musicanti non ondeggia divertita dal suo proprio ritmo. Poi torneranno, affamati, alle loro baracche e block in muratura.

E gli operai? Al Gustolf Werke, annessa al campo, a costruire armi per la Grande Gennaia; a oliare e custodire, ammirare, vezzeggiare e provare i motori dei trecento carri armati Tiger e Panther del SS Garage, del pari annesso: estrema riserva della Grande Gennaia ormai sul punto di tirare gli ultimi.

La quale ha eletto, per volontà e opera del suo fantasista, tra i ritmi vitali possibili, quello della marcia, il più elementare: la musica che lo esprime è la resa quasi immediata di un movimento tra i più semplici, l’uno-due di chi procede a ritmi serrati. Nulla è lasciato all’iniziativa del singolo – uno sgarro e sono i denti dell’alsaziano, del poliziotto o del miliziano S A – uno dei mille e mille guardiani.

Cos’è il Kitsch?

Per poterlo definire, bisognerebbe possedere la formula del suo contrario. Vale a dire ciò che non è di cattivo gusto. Va bene, niente bambolone grandi quanto bambine abbigliate di merletti sui letti nuziali; niente nanetti da giardino; niente poltrone-farfalle; niente di quanto serva a distrarre il popolo dall’oppressione capitalista (Adorno dixit).

In una parola, il contrario in questione è il bello.

Già, ma cos’è il bello? Be’, lo si sa, no? Il bello è il bello. Quello che non è brutto. Tentiamo una definizione un po’ più precisa.

Sono belle le tre grandi piramidi egizie che al Cairo occupano quasi l’intero quartiere di Gizala? Nella più grande di esse, vi giace l’anima, se non il corpo, del Faraone. Il morto che, da quell’ammasso di pietrame, detta ancora legge al suo stanco popolo. Si può anche andare a trovarlo. Basta scalare il pietrame, infilarsi in un cunicolo, arrancare, arrivare a una camera con un sarcofago. Vuoto. Come è vuota la camera in cui Amenofis IV, divenuto (?), adora il suo dio dell’Occidente. In forma di un raggio di sole che, entrando da una feritoia, gli arriva sul palmo della mano. Fatica dunque per rendere onori al Faraone. Meno di quanto ne sia costata agli operai che, nutriti di cipolle e agli, hanno eretto la grandiosa opera.

Da Le mille e una notte

Storia del Califfo Al-Mamùn e le piramidi. «Si narra che Al-Mamùn, figlio di Harùn ar-Rashid, quando venne nella città del Cairo per prenderne possesso, avrebbe voluto demolire le piramidi per impadronirsi di quello che contenevano… gli antichi sostenevano che all’interno della piramide occidentale, la maggiore, ci fossero trenta camere… piene di gemme preziose, di enormi quantità di monete, di immagini singolari e strumenti e armi magnifiche, spalmate di unguenti magici tali che mai arrugginiranno fino al giorno del giudizio… ciascuna piramide avrebbe un tesoriere che la custodisce e attraverso i secoli la protegge da ogni calamità che potrebbe accadergli. E questi tesorieri sono esseri magici.» Ora, accadde che AlMamùn, mosso dal desiderio di demolire l’enorme opera, «pervenne soltanto ad aprire una piccola breccia, e si dice che dentro vi trovasse la stessa, identica somma che aveva speso per scavarla, né più nè meno. Il Califfo ne restò stupito, si accontentò di quello che aveva trovato e rinunciò al suo proposito.

Dipende dai punti di vista

C’è chi si lascia sedurre dalla grandiosità. Altezza, ingombro, peso. Marmi e bronzi. C’è a chi piacciono i monumenti ai caduti delle molte guerre combattute in nome del bene, che è tutt’uno con il bello (Platone dixit) e sono eroi nudi, poderosi, fallici, in pose eroiche, in una mano il gladio, nell’altra lo scudo. E ai loro piedi a far da base, robuste vergini in perenne attesa che tornino i defunti vincitori.

Insomma, c’è qualcuno – e tenteremo di scoprire chi è – che decreta ciò che è di buon gusto, vale a dire: il bello. Solo che a questo punto si incappa in un circolo vizioso. Il bello è il bello, abbiamo detto. E il bello suscita emozioni. È quanto riesce piacevole all’udito, alla vista, al tatto, al gusto, all’odorato.

Ne riparlerò più avanti. Qui mi interessa far notare che non sappiamo dire cos’è il bello. Come non sappiamo dire cos’è l’elettiva sede del belllo: l’arte. O meglio l’arte artistica, che è quella affermata tale dagli artisti professionisti e dagli esperti d’arte, critici alla testa, e che li induce a ritenere accettabili solo le opere esposte in musei e gallerie o che rispondono al loro stesso codice referenziale e agli stessi mezzi di espressione. Insomma l’esaltazione del buon gusto. Quella che Jean Dubuffet, proclamatore e addirittura inventore della art brut ha definito “asfissiante cultura”: quella che ormai ha preso il posto che un tempo era della religione. Con i suoi sacerdoti, profeti, dignitari, che «fanno di tutto per persuadere le classi inferiori che è necessario salvaguardare l’arte e cioè le poltrone Luigi XIV, vale a dire la borghesia che sa quale seta bisogna usare per foderarne gli schienali.» E che sa riconoscere a prima vista il kitsch e, armata di buon gusto, sa starne alla larga.

Ciò che si intende per arte

Occorrerebbe innanzitutto stabilire che ciò che chiamiamo arte può o non può avere valore al di fuori di ogni attribuzione. Sarebbe dunque possibile attribuire valore, in un certo senso un valore aprioristico, alle opere d’arte? Resterebbe aperta la domanda: un valore così assegnato e da attribuire al Discorso, alla Logico- discorsività (che si fonda sul principio della distribuzione di quella che, altrove e più volte, ho chiamato la normalina) oppure alla poesis, la quale è cosa della Parola, del mitico, della dimensione onirica o oniromorfa?

Ma dove può collocarsi il valore dell’opera d’arte che non sia attribuibile? Ed ecco che allora si pone la questione di opera e di arte. E sempre, sullo sfondo, di cos’è il bello.

La Parola non ha origine, in quanto originaria. Laddove l’arte, la parola-arte, non è oggetto: l’arte non è del mondo, non è Weltschauung come non è Kunstwollen. E il bello resta il bello – cioè l’indefinibile. Ma è insieme, l’accesso all’aldilà ritenuto visibile, come appunto le fiamme del roveto arte, che non brucia: la metafisica. Il noumeno.

Imitatori del celeberrimo fantasista

Il quale ha toccato il proprio vertice aggredendo l’Unione Sovietica, allora guaidata da un altro notorio fantasista, quello che sapeva per certo cosa riservava il futuro. Ce ne sono stati altri?

Oh, sì, era l’epoca di fantasisti. Sbocciavano come funghi velenosi. E tutti proclamavano di essere i portatori della felicità – del bello – del sublime.

Noi, che ne siamo gli involontari eredi, possiamo riconoscere che il mondo odierno è tutto quanto kitsch: minacciato cioè da se stesso, tramite la tecnica figlia primogenita del logos, che tende a colmare fin l’ultimo residuo delle facoltà intellettive umane.

Spostando, o dilatando, la nozione di kitsch, penso si possa affermare che, ben al di là della negazione del cattivo gusto, esso è la tristezza, la delusione, la malinconia del pensiero che nulla sa, se non favole.

Il genio romantico, vertice del Kitsch

Il sommo fantasista ha avuto anche momenti teneri. Racconta Diane Ducret, Le donne dei dittatori (trad. it. Garzanti, Milano 2012) che a Linz, sedicenne, Kitschler si sarebbe innamorato di una Stephanie Isak, alta, snella, bionda, che il fantasista seguì da lontano senza osare di avvicinarla. Le avrebbe perfino scritto una lettera, che però non firmò né tanto meno le spedì. Metodo romanticamente geniale per risparmiarsi eventuali figuracce.

Del resto, il genio è la grande invenzione del romanticismo. Ideologia alla quale dobbiamo due guerre mondiali più alcune guerricciole di contorno, come nella ex Iugoslavia e in Libia, nonché l’odierno capitalismo energumeno, i  neo – colonialismi, la sistematica espulsione dei migranti, e l’altrettanto sistematico – ma sempre negato – disprezzo per l’umanità. Oltre naturalmente all’esaltazione del progressismo e del suo interprete: il proletariato rivoluzionario, e dunque i “geni” Lienin e Stalin, ai quali va aggiunto l’indimenticabile Mao Ze Dong.

Torniamo per un momento ai numeri del nostro fantasista. Basti pensare al crematorio di Buchenwald che Kitschler o, in nome suo i suoi fidi seguaci, avevano voluto ornare di un’eloquente targa, che, se ben ricordo, suonava: “i vermi non avranno la mia carne, non putridirò nella terra. Salirò al cielo e al sole”.

Aggiungo, prima di tornare al genio romantico, che il fantasista ha esibito involontari tratti di ironista. Uno dei più felici è consistito nell’offrire, ai nuovi arrivati nei campi di sterminio, una doccia purificatrice. Solo che dai rubinetti colava il gas Ziklon B anziché acqua.

Il genio romantico merita un’attenta riflessione. Il genius latino, concetto dal quale alla lontana deriva, era la divinità tutelare, e figurativamente l’”inclinazione“, la “disposizione”. Veniva dall’esterno. Poteva essere buono o cattivo.

In epoca rinascimentale, il genio ha cominciato a introiettarsi, a diventare la somma potenza creatrice dello spirito umano. Idea, come si vede, di influenza cristiana, soprattutto cattolica, con il suo concetto dell’anima, e della responsabilità individuale. Va anzi detto, e ne riparlerò più avanti, che il nostro Kitschler ha avuto chiare ascendenze cristiano-cattoliche. Parlava infatti in cristianese, intendendo con ciò una delle favelle di cui vi sia pur remota influenza neolatina. Ognuno di noi è parlato dalla lingua di cui si avvale. E il fantasista parlava – pensava in tedesco, al di là delle sue farneticazioni neopagane (Odino, il Walhalla, le Valchirie, la musica di Wagner).

Ma torniamo la concetto rinascimentale di genio: virtù riservata a pochi ed eccezionali individui che, grazie al loro talento, giungevano a straordinarie altezze nell’ambito dell’arte o della scienza. Il genio di Dante, di Michelangelo, di Leonardo – spesso, è vero, confinante nella scelleratezza, o quello che la moderna psichiatria, definisce follia. Idea, questa, che ha tutt’ora pieno corso. Il genio romantico, successore di quello rinascimentale, può de-ragliare, uscire cioè dal solco della laicità, se non sia incanalato, guidato, da un pensiero in un certo senso concentrato. Un pensiero-guida che può essere a sua volta deviante. Ed è già deviante il sentimentalismo di cui il romanticismo si gonfia, e che si accompagna a una vana esasperazione delle emozioni (esaltazione patriottica, tifo sportivo, per esempio).

E il pensiero-guida del nostro fantasista c’era, eccome, solo che aveva tutte le caratterisciche del nazionalismo, del razzismo, della superiorità bianca e in particolare prussian-germanica. Kitschler è stato la sua epoca. Che pencolava, tutta quanta, verso l’irrazionalismo. Più esattamente, verso una visione del logos che monopolizzasse tutta l’estensione dello spirito umano. E il nazismo, come del resto il fascismo e i movimenti affini, è stato una proclamazione di questo logos assoluto, che trovava espressione negli slogan tipici del periodo, in primo luogo il Regel und Disziplin muss sein, imposto fin dall’educazione scolastica elementare e dal terrore per i disobbedienti.

Tra il XVII e il XVIII secolo, le neotendenze irrazionalistiche, ma mascherate di affermazione esclusiva del logos, erano accompagnare da una visione sentimentalistica dell’arte artistica (di cui sopra). Quanto al genio, già per Kant era esso a dettare sponte su, i modelli dell’arte; per Shiller, era il principio dell’arte “ingenua contrapposta alla “sentimentale”. In effetti, le due componenti procedevano di pari passo, e l’esaltazione romantica del genio finiva non di rado per tradursi in eccessi (alcool, droga di vario tipo e origine…) E ne metteva in risalto la costitutiva “anormalità”. Un passo ancora, e il genio romantico sarebbe diventato cugino del “delinquente” alla Lombroso. Un’ondata cimiteriale che ha prodotto – e continua produrre i suoi catastrofici effetti –

Sull’accesso ad Auschwitz, il fantasista aveva voluto apporre l’affermazione Arbeit macht frei (il lavoro, beninteso, dei ridotti in schiavitù).

L’essenza del bello

Come Sein come in sé – e – per – sè, indefinibile eppure oggetto di conoscenza il bello è un al – di – là. Bello, e perfetto, sarà il paradiso che toccherà ai buoni e premiati. E Kitschler sa, e con lui lo sanno i suoi caudatari, ciò che è il bello. Sostiene anzi di saper edificare il paradiso in patria. E sa che il brutto va distrutto. Quindi, arte che non sia legittima, quella stessa alla quale si è esercitato frequentando l’accademia, deciso a farsi pittore. E sa anche quali sono gli scritti ammissibili e quali invece da dare alle fiamme.

 

Ah, Kitschler, la tua vita è stata tutta un’autonegazione. Impossibile, per Kitschler, accettare la convivenza con il giudaismo? Sì, in apparenza. Vi è che l’ebraismo è paragonabile alla rimozione freudiana: per esso, ogni cosa è avvenuta, non può verificarsi nulla di nuovo. Laddove Kitschler, convinto sostenitore dell’avvenire come promessa realizzabile dalla volontà e della fede patriottica, è convinto che ancora tutto deve accadere. Alla memoria ebraica non resta che aspettare, pazientemente, che quel quid tuttavia promesso dai profeti, finalmente accada, e sarà l’apocalisse.

Il pericolo che incombeva sulla Grande Gennaia, nei paini di Kitschler destinata a un definitivo disgelo, a una primavera e piena estate che sarebbero coincise con la conquista e la navificazione del mondo intero, era che prevalesse la rassegnazione, la pazienza, la rinuncia all’epilettico passo di marcia: insomma l’imborghesimento della Patria. La rinuncia ad accettare la promessa del futuro, la vera essenza del germanesimo. Che doveva essere la negazione dei sogni improduttivi, degli abissi dello spirito umano in cui dimorano le fantasmagorie, i simboli dal duplice volto, indecifrabili e negatori del sano letteralismo.

Che anche in Kitschler restasse, almeno a livello onirico, la paura-speranza, di potersi finalmente abbandonare, di svestire la corazza dell’invincibilità? Di farsi, almeno per un istante, addirittura talmudista.

Sospetto che ha avvelenato gli ultimi giorni del grande fantassista: che, sulla grande Gennaia si stendesse l’ombra dell’imponderabile – della non stanzialità che, proiettandosi all’esterno giustificabva la conquista e la distruzione.

K, supremo metafisico. Ideale interprete della nostra condizione di post neolitici produttori di macchine e non più di pietre lisce. Di fedeli della divinità che ha nome tecnica.

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