Il diritto dell’altro – di Enrica Alpi
BREVI NOTE GIURIDICHE
Cosa significa diritto alla vita? Da cosa deve essere assicurata la vita? E come? Ha necessità di un supporto legale o morale la vita per essere riconosciuta?
Le norme e i valori, in ordine a determinate finalità, raffigurano la distinzione tra il bene e il male, tra il lecito e l’illecito, ma la vita, considerata un incommensurabile indefinibile non può essere considerata in subordine a finalità di alcun genere. La vita si esplica in sé e per sé vivendo – la vita al gerundio-vivere-vita-vivendo – non occorre abbia un metavalore che la istituisca. Il “come” vivere non può costituire motivo pregiudicante della vita in quanto tale, tranne farne un principio relativo all’economizzazione della morte.
La vita considerata nel suo assoluto non è qualcosa di misurabile, sommabile, divisibile o valutabile. Riguarda essenzialmente la differenza e l’Altro. L’atto di parola nel dispositivo pragmatico non è connesso alla rappresentazione del possibile e dell’impossibile, bensì è riconducibile a quanto d’altro, di imponderabile possa intervenire nell’atto stesso, nell’istante. La pragmatica è del fare. Nessun diritto senza il fare. Il dispositivo dell’esperienza poggia sul diritto dell’Altro, dove con Altro si intende ciò che non può essere rappresentato, significato e personificato in alcun modo.
L’incommensurabilità della vita ne è la sua stessa garanzia, e l’incommensurabile in quanto tale non permette la formulazione metafisica della vita sia in termini epistemologici, fenomenologici che teologici.
Nel suo essere incalcolabile e indecidibile, perché la vita – in nome della sua salvaguardia – dovrebbe essere una faccenda da riconoscere e disciplinare? Riportare la vita a un riconoscimento normativo o morale significa restringerla, ossia limitarla in dipendenza di una valutazione operata da norme e valori che altro sono rispetto alla vita.Ciò che viene regolamentato non ha più carattere di assoluto, ma si relativizza e come tale è in dipendenza da altri valori per la sua affermazione. Anche considerando la vita un bene inviolabile o inalienabile, in quanto bene riconosciuto e regolamentato, entra in una categorizzazione che può altrimenti essere definibile a seconda delle esigenze di una circostanza particolare. Del resto un bene è inalienabile solo se lo è in un’altra contingenza. Ogni definizione, infatti, oggettivizza un concetto per poterne strumentalizzare l’applicazione.
La stessa Corte Costituzionale, ad esempio, affermava (sent. 1/1956) che il concetto di “limite” è insito nel concetto stesso di diritto e che nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono sottostare di necessità ad una reciproca limitazione, proprio ai fini di un’armonica ed ordinata coesistenza civile. Essere titolari di diritti, infatti, significa aver la pretesa che la propria situazione giuridica trovi soddisfazione, tuttavia l’applicazione concreta del proprio diritto può essere in contrasto con un altro diritto. Di qui la tecnica del bilanciamento, ossia la valutazione e selezione di quale sia il diritto che deve recedere, sacrificarsi.
La vita come materia di riconoscimento e quindi di disciplina, seppur con tutti gli attributi supremi, si trasforma in una sfera non sopprimibile, ma certamente delimitabile e circoscrivibile.
Di fatto, però, l’unificazione ideale del valore da tutelare, ottenuta tramite la distribuzione di valori e la determinazione di ruoli, annulla la vita stessa, né è la sua stessa negazione.
Tutelare la vita mediante il suo riconoscimento da parte di un sistema – giuridico o morale che sia – significa sottometterla ai loro codici, ossia renderla dipendente dai valori e dalle norme soggettive che gli stessi sistemi creano e che rappresentano come necessari per la salvezza. La vita, dunque, non sarà l’imponderabile, non compromettibile sempre presente, ma sarà invece in balia, o in dipendenza, dei valori che di volta in volta verranno designati come i presupposti utili e necessari per la sua stessa salvaguardia.
La vita, dunque, diventa assoggettabile a strumenti di valutazione e disciplina, che alcuni, in nome degli altri, stabiliscono essere necessari per la salvezza terrena e ultraterrena. Per esemplificazione: la categoria attualmente di moda designata “spread” entra nella tradizione della nostra cultura occidentale come indice di valutazione accertabile per divenire un imperscrutabile elemento “macchinale” di assoggettamento.
Asservire la vita a un’idea implica che, non raggiunta l’idea stessa, vi sia una vita mancata, non esercitabile, quindi alienabile e violabile.
Del resto, l’assoggettamento della vita a una valutazione operata da valori e norme in nome della sua stessa salvaguardia, comprende in sé la condizione che non tutte le vite hanno valore, che, dunque, si acconsente a che vi siano vite realizzate e vite irrealizzate, vite possibili e vite impossibili.
La vita relativizzata è vita frammentata, è vita misurata su parametri soggettivi che, i sistemi particolari, impongono come obbiettivi generali da raggiungere, come garanzia consacrata alla tutela della vita stessa.
La vita proclamata in un ri-conoscimento diviene un bene de-finito – ossia confinato in qualcosa di già conosciuto e predeterminato – passibile, quindi, di poter essere gestita o gestibile.
La vita come assoluto, come elemento inconoscibile e incalcolabile, deve essere elemento imprescindibile del diritto e suo orientamento affinché il diritto stesso sia esplicazione pragmatica delle attività, sia invenzione, sia apertura, sia risposta diversa dal pre-giudizio. Il diritto, invece, che si arroga il ruolo di salvaguardare la vita, assoggettandola a se stesso rappresentando la vita come oggetto di suo riconoscimento, e quindi come un’idea generale e predeterminata affinché la vita sia considerata tale e quindi affermata, è una disciplina di imperio, ossia uno strumento utile per imporre determinati interessi particolari.
Se la vita, infatti, è un bene di cui il soggetto ne ha la titolarità – seppur definito inviolabile e quindi facente parte del patrimonio irretrattabile del soggetto stesso – ci sarà comunque una situazione giuridica passiva a cui dover sottostare. Ad ogni diritto corrisponde un dovere. Ad ogni situazione giuridica attiva, corrisponde una situazione giuridica passiva.
Tutelare la vita mediante un riconoscimento di titolarità per il suo pieno esercizio, e quindi per la sua salvaguardia, significa prevederne un costo e accettarne un possibile sacrificio in nome della stessa tutela.
Se al lavoro, all’economia, alla medicina e al denaro, ad esempio, che sono materie oggetto di disciplina giuridica, peraltro cavillosa, facesse riferimento un diritto che trova fondamento dalla vita come assoluto, potrebbero essi stessi diventare parametri che fissano i limiti della stessa vita? E evidente che la risposta e’ un no. Come potrebbe il denaro, che è mera creazione umana, determinare la vita di un uomo?
Prendiamo l’esempio del cibo: ci sarebbe cibo per tutti. Grano per miliardi di persone. Malgrado ciò, vengono mandati al macero tonnellate di alimenti. In base alle leggi economiche, secondo numeri e conti, tabelle ed interessi, non risulterebbe conveniente immettere nel mercato troppo grano. In base a cosa viene decretato nei suoi principi un crollo economico? E intanto, molti, moltissimi uomini muoiono di fame.
Un diritto che dichiara solennemente il diritto alla vita, ma acconsente che la vita di un individuo, anche fosse uno solo, possa essere determinata e sacrificata da un valore che nulla centra con la vita, che lingua parla?
Parla di diritto sull’altro e non di diritto dell’altro.
La vita quindi è una proprietà, con tutte le conseguenze che da tale concetto ne derivano.
E ancora, se la vita fosse acquisita come un principio assoluto, come potrebbe il denaro, che è simbolo di relazione e di scambio divenire simbolo totalizzante e non parziale delle relazioni umane?
Perché la salvezza della vita è legata al lavoro, all’abitazione, all’assistenza sanitaria e non viceversa, il lavoro, l’economia ecc… non si fondano sulla vita come assoluto, imprescindibile e non compromettibile?
Togliendo la vita come assoluto, ossia come la vita come atto originario, la vita stessa– seppur dichiarata un bene inviolabile – diviene “oggetto”, “cosa”, asservibile a rappresentazioni che, arrogandosi il compito di salvaguardarla, tramite una gestione e un controllo della vita stessa, diventano strumenti determinanti per la salvezza, e quindi implicite determinazioni di immortalità.
Credere che siano dei valori – diversi dalla vita – a doverne determinarne i contenuti, in virtù della sua salvaguardia, significa delegare ad altri la responsabilità’ della vita stessa e quindi consegnare ad un “garante” di turno, che in realtà altro non è “chi” esercita una forma fra le tante storicamente date, di autoritarismo del potere di gestione sulla vita.
L’irresponsabilità, infatti – pacificamente garantita dal conformismo – riceve protezione, ossia la grande illusione di salvezza, che in realtà è il primo requisito per l’arbitrarietà della coercizione. Insomma, la libertà sfuma e la minaccia è il caposaldo.
Analogo discorso riguarda evidentemente la trasgressione, altra faccia del conformismo, con le stesse chiusure e predeterminate conseguenze.
Nel conformismo, così come nella trasgressione, in realtà siamo tutti fintamente liberi mentre agiamo dentro uno schema e quindi senza nessuna invenzione, ma solo imitazione e ripetizione di un meccanismo fine a mantenere se stesso. Noioso e violento, ma che certamente è utile per giustificare ed aprire le strade al massimo del non autentico: la speculazione. Delega della delega. E l’uomo come progetto, davvero è sempre più distante.
La speculazione, è una sproporzione che è diventata un modo di vivere, che coinvolge non solo i titoli finanziari, ma i rapporti umani. L’investimento sul nulla per ottenere profitti che concretamente non si possono ottenere.
Se è pur vero che per speculare e guadagnare oltre il reale si investe sul nulla – tentando o credendo di poter superare la materialità – la contropartita è che la violenza non è finta, ma reale. Direttamente sull’uomo.