Triplo Axel – di Gabriella Landini
QUESTO NUMERO DI ULTRAFILOSOFIA È DEDICATO ALLA PAUSA, ALL’OZIO, ALL’INTERVALLO, AL VUOTO, AL RIPOSO, AL SONNO, ALLA QUIETE, AL RISTORO, ALLA PACE… AL SILENZIO
THIS ISSUE OF ULTRAFILOSOFIA IS DEDICATED TO PAUSE, IDLENESS, BREAK, EMPTINESS, REST, SLEEP, QUIET, RELIEF, PEACE…SILENCE
Immagine di copertina di Francesco Muscente
TRIPLO AXEL/ L’INCANTO, LA MORTE, LA TARANTA.
Mentre cadono mucchi piovani di cenci torvi, un sospiro molesto passeggero sfiora il risveglio. Dondola. Dondola ancora l’altalena. Neghittosa. Ghignosa. Spingere e spingere, lassù in alto, la capriola delle corde e del fiato trattenuto dallo sgomento, il volto s’innalza, si spericola fiero e incontra il fondo prospettico: la lontananza del mare. Mare che mi ipnotizzi gli occhi e mi chiami a un rito di dono e scambio-quaggiù, al ritorno, risacca avvolgente, e caldo l’affondo a mezza gamba nel deserto di sabbia. Senza che il tempo abbia a proferire il benché minimo tocco di pensiero. Introvabile la memoria di osservazioni di nuvole dall’alba al tramonto. Un illimitato di vapore sfumato. Eppure. Eppure. Lo scuotere di una quiete scioperata, satura di malia, intona cantilene magiche di lusinga, e ondeggia il dormiveglia infingardo, colmo di lussi trovati lì per lì, mai cercarti e subito lasciati: l’abbandonarsi, lieto, all’inezia. L’infanzia immersa nell’infinitesimo di briciole appassionate di sorniona ignavia; il suono amplificato dell’accidia è un fiducioso sapore d’agrumi acerbi morsicati fuori stagione.
Lama, ghiaccio, lama, ghiaccio, incide la ripetizione nel rosario stremato di bravura incalcolabile. Si affaccia con l’altro che ti tiene il gesto nelle mani del sidereo. Sei un chiù, un barbagianni: trottola, trottola che zampetta ballerina, tamburo, tamburello, nastro lallato di voce in sospensione. Nel folle riverbero degli strappi, spaesi ogni cosa- plachi dio e la verità.
Poltronaggine di un soggiorno di pigrizia. Fannulla di conforto, puntare l’incanto della brezza quando fa veleggiare i moscerini. Salgono, salgono nel loro turbine di tifone sonnolento. Spariscono, spolverati dall’immobilità di uno sguardo a pesce lesso. L’occhio non li insegue, attratto com’è dalla densità catatonica della canicola. Canicola colma o vuota di colore? Il tempio della ricreazione è un va e vieni di fermi uragani e scrosci di tarante. Ho gridato fino allo sfinimento alla notte, alla morte, chiamando le stagioni e ricacciandole nel ventre delle costellazioni.
Sospensione verdastra subito dopo un crepuscolo elettrico. Il gelido crepaccio t’inabissa nell’umidore dell’alito. È ancora un’oasi in cui stai straripante pacato: orizzonte piatto nell’ora panica, l’assecondare un faraglione per il verso dello strapiombo, la flemma indolente del ventaglio quando rinfresca la pennichella meridiana. Il rivolo sudato che solca la fronte nel riflesso di un monsone.
La quiete scuote, alveo magnetico del riposo, scatena lo sconvolgente per tranquillità: nel mitigato tacere del desiderio, dei narrati, della paura, dei rifugi.
Sapresti trovare l’energia dello spirito delle atmosfere? Il superfluo straordinario affollato dalle raggianti spirali aeree, l’ossigeno della tregua, nell’elevato sostare a mezz’aria in requie, quando lo sforzo nel suo estremo apice giunge altero, disperatamente puntuale, e tace. Oppiaceo, indolente, ti slancia altrove e in niente. In niente di niente. Salto, altro salto, triplo salto, attesa, apnea, levitazione sacra. La panoramica dal cielo fa scivolare in fede il muoversi e il sostare. Lo spirito della materia è un taumaturgo aleggiante, che fa piroettare per espansione emozioni e carne, ti raccoglie nel panno della nebbia, ossesso dall’afa e dal tamburo, per un gelido addio, risiede in tutte le tue tappe, in tutto il tuo ristoro, medicina del vorticoso: l’impassibile sottratto alla visione. Ottenere nulla. Afferrare nulla. Imitare nulla. Quello che c’è non è a disposizione. È da intendere per altra via.
Il sole, salendo i gradoni per ombre e fuochi di chiarore, scorge nel suo letto di segreta grazia la frontiera di soggezione e confidenza. Non t’invita. Ti chiama, urlando un riso da demente. Mi appella dalla penombra di una cripta, dal suo freddo odore di polvere, fenicottero del tramonto – quel che resta dello spirito del riso irredento.
Era limpida agli angoli della bocca la mescita in ogni fibra, straripante di superfluo, ripreso dal precipitarsi del sangue che attizzava la burrasca dei carmina. Di un silenzio di pensiero. Bilanciamento d’impulso e temperanza, equilibrio d’indulgenza. I muscoli stravolti e sfiancati filano placidi in una distesa di malva azzurra. Ozio, sicurezza della consolazione, delizia del riposo, soggiorno del conforto dello svago e del sollievo, mi slancia al sonno per eccesso d’inazione, per dormire, per mollezza, per rilassamento, sto in vacante bilico della gravitazione e sono l’universo in pelle e in corpo. In miseria e grandezza. In sonno e sogno. Lo stordito per intendimento; in letargico epidermico vuoto sfavillante. È festa, agiatezza. Dimenticare è l’ara della peripezia.
Un tripudio di tedio afferrò la stanza per le sue stretta ossa: abbondanza, gaudio, fortuna, salve, ave, inquietudine, struggimento: ma che volevate dirmi? Che volevi, vecchio pazzo alla soglia della salina, quel varco che diventa entrata, che volevi dirmi mentre scuoto il ritmico ondeggiare cinetico della pianta del piede?
Che sia giubilo e voluttà, oppure un semplice astratto? Sorniona beffa di ogni figurazione. E nell’abbacinante luce del meriggio l’enigma resta enigma nel calarsi fatuo, dolce, d’oasi e di parentesi.
Neri cherubini rubarono alla rauca gennaia -in un’era di smemoratezza stolida zeppa di delizia e dannazione- quel suo ritornello di sacche appese al dorso di uno scandalo. E sia. Sia in pietà e sgomento, la beatitudine, il delirio, l’ebbrezza, la delizia, l’esaltazione, la gioia, il godimento, la vanità e il sollucchero: trance, settimo cielo, appagamento, nirvana, piacere, serenità giulebbosa, entusiasmo, gusto, voluttà, delizia, estasi.
Sia gronda la mia preghiera di felicità intensa, penetrante, in trabocco dell’alveolo, mitigato di forza e d’ambiente.
Acqua fresca di dormita, lascia la svagata sonnolenza ai secoli letargici al picchiettare della corsa, età assopite nell’inconsistenza.
Senza titolo. Rarefazione.
Oblio e subbuglio di un obliquo di senno.
Senza titolo. Appestati. Attraverso il nulla.
Il bello ebbe un fremito per quella scorpacciata di arrivi.