Presagi – di Omar Cerchierini
Immagini di Thadsanapong Sinsumruai
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Lopburi, 24 luglio
Sua madre era arrivata a Bangkok da Lopburi quando aveva sedici anni – sola e con pochi centesimi in tasca.
A Lopburi, oggi, è domenica. Abbiamo viaggiato in auto per 150 kilometri – io e N., sua madre e il fratello e Irada, la nipotina. Attraversiamo la campagna piatta e assolata, dove appaiono, come dal nulla, piccole montagne di roccia, simili a meteoriti caduti dal cielo milioni di anni fa. Dal fianco delle montagne, verso la strada si sporgono le bocche spalancate dei draghi che vegliano l’ingresso dei templi, nascosti tra i bamboo e le palme. La casa dove è cresciuta la madre di N. è di legno, in stile thailandese, sollevata dal suolo sulle palafitte. Adesso è vuota, nessuno ci abita più da anni ed ha l’aspetto delle cose abbandonate a stesse: l’erba alta, i muretti tirati su all’ultimo per deviare l’acqua nella stagione delle piogge, finestre dagli infissi cadenti, ceste di canne intrecciate lasciate fuori ad ammuffire. A me piacciono molto le case in legno e sua madre mi promette che se io e N. ci ameremo per davvero, lei ne farà costruire per noi una nuova all’altro lato del terreno, vicino al canale. C’è silenzio, interrotto solo da qualche motoretta che passa lungo la strada desolata sotto al sole: ricorda “l’ora del meriggio”, il momento della calura estiva che per i greci era propizio all’epifania del dio. Ma qui, in realtà, l’estate non esiste, e la mamma di N. raccoglie manghi, papaye, banane e altri piccoli frutti verdi che le serviranno per cucinare il green curry. Vento tra gli alberi, cantano strani uccelli colorati fra i rami. Io mangio i frutti di tamarindo appena staccati dall’albero.
Di nuovo in auto, penso a come sarebbe vivere qui, nella casa di legno. In mezzo a niente. Camminare lungo la passerella di assi nella stagione delle piogge. Usare il bagno fuori casa, dove l’acqua è raccolta in una grande giara dai colori smaltati. Muoversi a piedi nudi sul pavimento di legno. Dormire sul letto chiuso da una zanzariera come da un baldacchino. Ci saranno dei cobra nascosti tra l’erba?
Ho scritto: vivere in mezzo a niente. Però, solo spostandosi mezz’ora in auto, si è nel centro della cittadina, che ha migliaia di anni. Le roccie che resistono ai secoli, le rovine dei templi khmer, il buio al loro interno, che sembra rimandare a un passato che richiama l’oscurità intricata della foresta. I macachi che prendono un pezzetto di frutta con le loro piccole dita. Come può sembrarmi niente tutto ciò che non è la mia storia?
Nel vicino monastero il vecchissimo monaco cieco ci riceve per la benedizione domenicale. Tutti gli avventori, che sono arrivati per meditare, vestono abiti bianchi, segno della purezza delle intenzioni.
Il monaco fa impressione. All’inizio penso sia seriamente menomato, con problemi a parlare, ma poi mi spiegano che è cieco e molto anziano. Siede a gambe incrociate sulla pedana rialzata, il volto tramato di rughe profondissime, gli occhi bianchi mezzi chiusi. Sorride, il collo lungo e la testa tutta piegata di lato, come ascoltando la voce di qualcuno che gli parli dall’alto. N. mi dice che in oltre sessant’anni di vita monastica ha sviluppato una sensibilità così profonda che può intravedere il futuro. È un monaco molto popolare qui, e questa popolarità gli ha attirato negli anni passati molte invidie e crudeltà: alcune persone hanno pure tentato di avvelenarlo, tanto che la gente del luogo ha raccolto soldi per costruire per lui il tempio e il monastero dove adesso può vivere sereno con alcuni novizi.
Le altre persone, in fila, a turno chiedono una benedezione o un responso su qualcosa che le riguarda. Quando arriva il nostro momento, la madre di N. domanda su di me, dice che sono un farang (uno straniero) che sta cercando di lavorare qui. Lui continua a sorridere e dice che non sarà facile, ma se la mia intenzione è stare qui, riuscirò a lavorare. Mi inginocchio, mi prostro davanti a lui, poggiando la testa su un piccolo guanciale: lui recita una formula, mi accarezza la testa dopo aver immerso la mano nel talco, e soffia. Si alza una piccola nuvola bianca che, volando via, allontana gli spiriti malvagi.
Kanjanaburi, 5 dicembre
Compleanno del re e festa del padre. A Kanjanaburi con N., suo padre e la nipotina Irada. Il ponte sul fiume Kwai. Un’ora sul vecchio treno che ripercorre la ferrovia costruita nel sangue più di sessant’anni fa.
C’è il sole, il cielo è attraversato da nuvole quiete come carrozze. Il giallo e il verde dei campi, basse montagne blu dalle forme astruse.
In un’ora arriviamo a Thamkra Sae, sul fiume. Vento e silenzio. In una grotta aperta come una ferita sul fianco della montagna, una statua del Buddha tra candele e incensi. Non smetto di domandarmi che cosa ci faccio qui. È questo il mio luogo dell’anima? Brucio tre bastoncini d’incenso, in ginocchio davanti al Risvegliato. Solo il suono del vento ed il frusciare delle canne. Come buon augurio, un rintocco di campana nel cuore della grotta. Anche se non so dimenticare il dolore del distacco, qui, tra i bamboo cullati dal vento, dove non troppo tempo fa si nascondevano le tigri, penso alla rinuncia come a una scoperta, lontana dal dolore e dal desiderio di riscatto.