L’intelligenza della natura – di Renato Massa
Gli schemi sono schemi e basta, soprattutto se si tratta di schemi mentali. Sono ormai pochissime le persone bene informate che non accettano – in realtà dovrei dire che non comprendono – la teoria della evoluzione biologica, potremmo dire che il suo livello di certezza è molto elevato, ormai paragonabile a quello del sistema eliocentrista di galileiana memoria. Questa volta la chiesa cattolica non ha commesso l’errore di prendere una posizione ufficiale contro la teoria, le gerarchie sono state utilmente avvisate che si sarebbe trattato di un grossolano errore scientifico e politico. Però, in compenso, stavolta il grossolano errore scientifico e politico è stato commesso da alcuni biologi di valore: basta leggere libri come “The God delusion” di Richard Dawkins oppure “Darwin, God and the meaning of life” di Steve Stewart-Williams per rendersi conto che una parte del mondo della biologia, forse anche perché disturbata dai continui attacchi dei creazionisti, è passata a sua volta all’attacco e che alcuni illustri scienziati, credendo di muoversi sempre sul proprio terreno, sono scesi nell’agone filosofico con la massima serenità e anche – mi si passi il termine – con la massima ingenuità filosofica. Per questi studiosi le cose stanno in modo molto semplice: ora che sappiamo che esiste una sostanziale identità tra materia ed energia, tra mondo inorganico e mondo organico, tra mondo non vivente e mondo vivente, a questo punto non abbiamo bisogno di alcuna trascendenza, tutto ciò che esiste nell’universo è perfettamente spiegabile – e in effetti quasi interamente spiegato – per mezzo della fisica, della chimica e della biologia. Questo è tutto, le domande che gli uomini si pongono fin dalla preistoria sulla propria natura e sul proprio destino semplicemente non hanno senso, siamo finalmente arrivati a questa brillante conclusione grazie al metodo scientifico.
Accidenti, mi viene voglia di rispondere, pensavo che il metodo scientifico potesse fornirci le relazioni causali tra i diversi fenomeni, non ho mai pensato che potesse fornirci le risposte sul senso stesso dell’esistenza e fare addirittura piazza pulita della filosofia tout court. Mi era stato insegnato che un tale atteggiamento porta irrimediabilmente fuori dall’ambito scientifico, e invece ora trovo che no, che si pretende che i confini tra scienze sperimentali e filosofia dovrebbero essere completamente ridisegnati e forse aboliti.
Sinceramente, di fronte a un tale atteggiamento, non solo rimango sconcertato ma mi viene quasi voglia, per una sorta di reazione di segno uguale e contrario, di rivalutare la filosofia idealista nella sua forma più estremista, quella “assoluta”, cioè quella che ho sempre considerato anche la più delirante. “L’io – sosteneva Fichte – pone il non io”, il che poteva significare soltanto che la coscienza di ogni individuo crea il resto del mondo come una specie di sogno di un’entità spirituale che è l’unica realtà effettivamente riconoscibile come esistente nell’esperienza individuale. È il punto di vista esattamente opposto a quello degli ultra-biologisti, punto di vista che oggi, grazie a questi ultimi, non mi pare più tanto assurdo come mi pareva allora. In effetti, la natura è piena di coscienze, di esperienze cognitive, di intelligenze che gli ultra-biologisti pare che intendano tranquillamente ignorare, talora liquidandole esplicitamente come illusioni percettive prodotte dall’attività del sistema nervoso centrale. Se invece si insiste a prenderle sul serio e si parte dal punto di vista dell’esistenza di una pluralità di coscienze individuali invece che da quello dell’analisi della materia-energia, la realtà delle cose torna ad apparire piuttosto confusa. Come minimo si dovrà riconoscere che lo spirito è una proprietà emergente della materia e che quindi la realtà dell’Universo potrebbe essere più complicata di quanto non possa apparire a prima vista. Intelligenza, cognizione, coscienza non sono più categorie riservate alla specie umana ma semplicemente categorie della natura emergenti non soltanto negli esseri umani ma praticamente ovunque vi sia vita, persino senza un sistema nervoso. Anche lasciando da parte i recentissimi studi sulle piante, ci si può chiedere come sia possibile che i piccoli e semplici insetti possano raggiungere l’avanzata organizzazione sociale di una colonia di formiche, di api o di termiti. A parte le rispettabili e necessariamente parziali spiegazioni scientifiche sui meccanismi che stanno alla base di questi fenomeni, basterebbe rileggere il vecchio Aristotele per rendersi conto che una proprietà emergente altro non è che una proprietà potenziale dell’esistenza oppure immaginare con Platone una coscienza cosmica iperuranica, una potenziale intelligenza nella natura che si esprime nel mondo sensibile con varie modalità. È questo il senso filosofico della convergenza evolutiva di linee diverse, zampe, occhi, cervelli che compaiono diverse volte in linee evolutive completamente distinte tra loro come molluschi, artropodi, vertebrati.
Alcuni scienziati hanno cominciato faticosamente a riconoscere che, se è vero che gli esseri umani si sono evoluti emergendo a poco a poco dal mondo dei mammiferi, anche la loro intelligenza, cognizione e coscienza si deve essere parimenti evoluta a poco a poco e pertanto i suoi abbozzi debbano essere reperibili perlomeno nelle scimmie antropomorfe. Poi, però, altri scienziati hanno riconosciuto forme di intelligenza, cognizione e coscienza anche in altri animali situati in linee evolutive totalmente diverse, che certamente non portano alla nostra specie: cetacei, carnivori, roditori e persino uccelli come corvi e pappagalli, per non parlare delle intelligenze collettive degli insetti sociali. L’impressione che si ricava da queste convergenze evolutive è che la potenziale intelligenza della natura possa emergere in forme avanzate nei gruppi di animali più diversi, non appena le condizioni lo richiedano o semplicemente lo consentano. Questo argomento viene oggi sfiorato in diversi articoli e anche in diversi libri ma uno dei pochi autori ad averlo affrontato in modo esplicito è stato l’antropologo Jeremy Narby nel suo libro Intelligence in Nature che tenta, a mio parere con un buon successo, di stabilire una connessione tra le antiche credenze degli sciamani e quelle della moderna scienza. In questo libro, tra le altre cose, si parla proprio delle società degli insetti e della intelligenza dei pappagalli, quest’ultima un tema affrontato in un quarto di secolo di studi sorprendenti dall’americana Irene Pepperberg che ne ha fatto un sommario tecnico nel volume The Alex Studies e un altro non tecnico nel libro tradotto anche in lingua italiana Parla con Alex.
Fu alla fine degli anni settanta che Irene Pepperberg iniziò a pubblicare i risultati di una serie di interessanti ricerche che dimostravano chiaramente che i pappagalli erano sempre stati grossolanamente sottovalutati.
La Pepperberg era riuscita a istruire un pappagallo cenerino dopo averlo acquistato in un negozio di Chicago all’età di un anno, quando ancora non conosceva nessuna parola umana. La ricercatrice si proponeva di analizzare l’eventualità che i pappagalli fossero in grado di utilizzare parole per identificare oggetti e per definirne particolari proprietà come il colore, la forma o le dimensioni. Dopo 26 mesi di lezioni, Alex padroneggiava senza problemi i nomi e i concetti di nove oggetti e di tre colori (rosso, verde e blu) e inoltre era in grado di usare correttamente la parola “no” e di indicare anche la forma degli oggetti. Imparò anche l’uso della parola want (voglio) per chiedere qualcosa e a contare fino a sei, nonché a esprimere i concetti di uguale e di diverso. Per esempio, quando gli veniva mostrato un quadrato di legno rosso e un altro verde e gli si chiedeva che differenza c’era, Alex rispondeva: “colore”. Inoltre, Alex riusciva anche a tradurre in parole i suoi sentimenti. Una volta, dopo aver chiesto alla sua istruttrice di accarezzargli la testa, essendo stato subito accontentato, si voltò a guardarla dicendo: “gentile”. Un’altra volta, essendosi stancato della lezione, incominciò a rispondere “no” a qualsiasi richiesta e infine sbottò con un “no, me ne vado” incamminandosi con la sua tipica andatura dondolante lungo il posatoio. Il caso più straordinario, però, narrato nel piccolo libro divulgativo della Pepperberg, si verificò una sera in cui la ricercatrice era entrata a casa visibilmente nervosa per suoi problemi personali. Il sensibilissimo Alex se ne rese evidentemente conto e sbottò in un’incredibile: “Irene, datti una regolata”.
Ho avuto la fortuna di potere esplorare direttamente l’affascinante tema della intelligenza della natura non solo attraverso una vita trascorsa a osservare gli animali ma anche affrontando studi intesi a confermare e a estendere i risultati della Pepperberg lavorando per molti anni sui pappagalli sia in natura sia in laboratorio. Gli studi in natura furono effettuati nel 1993 in Tanzania, nel parco nazionale del Tarangire, sulla base dell’assunto che, se i pappagalli possono imparare la nostra lingua, allora è evidente che dovrebbero averne una propria che potrebbe essere in qualche misura interpretabile registrando i loro suoni e, al tempo stesso, osservando ciò che fanno mentre li emettono. Ho raccontato questa ricerca, che è stata una delle più interessanti della mia carriera, sia in alcuni articoli a carattere specialistico sia nel libro divulgativo “Il pappagallo dal ventre arancio” che fu scritto di getto poco dopo il completamento dello studio(1995) ma che poi rimase per ben quindici anni nel cassetto prima di poter trovare un editore che volesse pubblicarlo (2010).
A Milano, in collaborazione con diversi colleghi e laureandi, mi occupai invece di esplorare la creatività musicale di un pappagallo cenerino al quale furono insegnate soltanto le note musicali ma nessun motivo musicale preconfezionato. Manco a dirlo, il successo fu notevole e anche questa volta gli esperimenti furono descritti in alcuni articoli di tipo specialistico.
Dal 2009 sono stato collocato a riposo e ho portato con me Theo, la femmina di pappagallo cenerino protagonista di questi ultimi esperimenti. Certo, non possiamo intavolare una conversazione articolata su argomenti di tipo filosofico ma, seppure in modo elementare, certamente possiamo parlare tra noi di molte cose pratiche. Se suona il telefono, Theo mi dice “pronto!”, se vuole acqua chiede “acqua”, se mi vede mangiare qualcosa dice “Theo” per farmi capire che ne vuole un po’, se qualcuno esce dalla stanza in cui ci troviamo dice “ciao” e così via. Non ho dubbi di sorta che le sue parole, che ha imparato da sé ascoltandoci, senza che noi gli impartissimo lezioni formali, siano un prodotto dei suoi pensieri e dei suoi affetti. Non ho dubbi neppure sul fatto che condivida i suoi pensieri con i nostri e con quelli di miriadi di altri esseri viventi che non possono pronunciare parole come le sue e le nostre, ma che sono perfettamente in grado non solo di soffrire ma anche di pensare e di immaginare. Credo che il suo e il nostro pensiero, così come quello di miliardi di altri esseri esistenti sulla Terra e forse anche altrove sia l’espressione di una proprietà permanente dell’universo della quale ancora non conosciamo praticamente nulla.