Hostis/Sodalis – Friend and Enemy – Gabriella Landini
Copertina frame del film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni
Base musicale di Adriano Iavarone
La suprema istanza del vivere è che vi sia Humanitas, quel principio di solidarietà fra le persone che va oltre la definizione dell’amico e del nemico e che attiene alla vita come condizione assoluta inalienabile e non relativizzabile.
Ciascuna vita è indispensabile a che ci sia vita per ciascuno di noi. Nessuno è perduto, nessuno è escluso. Un elemento semplice e incommensurabile allo stesso tempo. E se lo teniamo a mente sapremo anche modificare le nostre credenze affinché ciò che abbiamo costruito e che chiamiamo tradizione sia modificabile e inventabile altrimenti.
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Nimistà – E se il nemico mi tradisse? Che ne sarebbe delle mie convenzioni? Delle mie asserzioni? Della mia organizzazione conflittuale – chi non è con me è contro di me? Se il nemico mi tradisse, in che modo potrebbe tradirmi? Che cosa tradirebbe? Il ruolo che scambievolmente ci siamo assegnati? Si taciterebbe? Se il mio nemico mi tradisse e diventasse mio amico tradirebbe se stesso, ma non me? Oppure mi tradirebbe due volte? Sarebbe un vinto, convinto, persuaso, condizionato, affiliato…? Diverremmo alleati, saremmo pacificati, compagni, camerati, sodali, confratelli, commilitoni… Ma se il mio nemico mi tradisse, mi tradirebbe proprio sull’essermi nemico, sparirebbe in quanto personificazione dell’ostilità dal mio ambito di credenze, e tradendomi in quanto nemico non diverrebbe nemmeno mio amico, si volatilizzerebbe in altro. Non potrei più credere a nulla che lo riguardi, sfuggirebbe in un altrove insostanziale. Perderei il grandioso vantaggio ad averlo come nemico, in cui tutto è concepibile, conoscibile, osservabile, prescrivibile, dettabile, descrivibile, significabile: diviso in bene e in male, buono, cattivo, amico, nemico, benedetto, maledetto. Perderei la padronanza della dettagliatissima descrizione della differenza perché differenza non sia, una differenza scrupolosamente circoscritta in un recinto speculare e proiettivo affinché quello che nomino diverso non venga rigettato in ciò che mi divide dal riflesso dello specchio. Se il mio nemico mi tradisse cesserebbe la mia supremazia consistente nel sapere tutto quanto presumo di sapere senza errori, senza sviste, senza ignoranza.
Amico e nemico sono un legame. Se il mio nemico mi tradisse, sfumerebbe nell’ambito dell’Altro, entrerebbe a far parte dell’immenso, dell’illimitato, dell’incommensurabile. Slegame. Potrei sempre affermare che tutto quanto è altro, è nemico–ma come afferrare l’Altro? Anche volessi rappresentare, sostanziare, personificare altro, non potrei mai dire tu, oppure io, lui, lei, noi, voi, loro, questo o quello, qui o là, senza incappare nella maschera, e lo scarto rispetto a ogni nominazione sarebbe ancora altro, altro e ancora altro, e così inafferrabilmente all’infinito. L’innumerabile delle traduzioni.
Amico, nemico sono due aspetti della stessa faccenda, due facce della stessa medaglia, ovvero della rappresentazione e della personificazione dell’Altro. L’Altro, in quanto alter-alius non ammesso entra nella sfera di ciò a cui viene attribuita una significazione e, nell’impossibilità di considerare l’alieno amico, questo diviene, nell’inconcepibilità del terzo, nemico. È questa una credenza totalizzante del vivere, una concezione finalizzata e calcolabile che non ammette aperture. Ciascun elemento del nostro parlare diviene classificabile, asservibile a qualche scopo, a un qualche fine, un dizionario onnicomprensivo di sinonimi e di contrari considerati alla lettera. Ciascuna parola ha sempre infinite traduzioni, e in questo sta l’apertura, l’aria, il respiro; amico – nemico non letteralizzati divengono un modo ironico di intendere la relazione. Se, invece, ciò che non viene designato buono diviene automaticamente opposto a ciò che viene annoverato nell’incerto o nel cattivo e comunque ricondotto alla sfera della “diversità”, categoria nella quale l’ambivalenza permane, in tale caso l’altro deve essere forzatamente tolto, eliminato in nome del bene supremo. L’impensabile che mi lascerebbe impensante, incogito, di fronte alla stramberia dell’inqualificabile, sarebbe equiparato all’incontrollabile, a quel caos che la teoria grammatico -discorsiva, sia cosmogonica che teologica, considera pre-razionale, ma che può concepirsi soltanto nell’ambito razionale e in essa ricondotta a sistema. Il caos si produce nella sintassi logico- discorsiva, al di là di quell’ambito resta difficile immaginare il mare o la Costellazione di Orione, in preda al caos. O meglio, il Caos cosmico iniziale per la cultura greca era l’indifferenziato non ancora nominato dal principio ordinatore della divinità, ma il principio ordinatore diviene una parzialità coerente proiettata sull’incommensurabile per farne una totalità esaustiva nell’ambito delle nostre escursioni teoriche.
Tutto ciò che non sottostà all’interpretabile, alla credenza di una divisione soggetta alle categorie del bene e del male, pervade le nostre convinzioni, il nostro modo di intendere la vita, il corpo, i sentimenti, così come pure la nostra stessa organizzazione civile. E a partire da quella divisione organizziamo, legiferiamo, imponiamo, battagliamo, lottiamo, sistemiamo fino all’estremo: la guerra guerreggiata.
Amico e nemico si trovano collocati in ciò che è legato da un vincolo di comprensibilità e di comprensiorialità. Ciò che resta incomprensibile al canone convenzionale, ciò che vagabonda, che sfugge: l’inafferrabile, viene afferrato inesorabilmente per avversità: se non è con me è contro di me. La contrarietà ipostatizzata per il legame di cui ogni dominio necessita per esercitarsi in armi e strumenti di ogni genere. Per dominare mi occorrono molti amici, fedeli, devoti, riconoscibili e che mi riconoscano come sodale a loro volta, ma al contempo mi occorrono anche molti nemici da combattere.
Il dominio funziona se determina al suo interno invidia, rivalità e inimicizia o se compatta la sua gente contro un elemento individuabile, esterno o interno che sia. Solo allora potrò riconoscere il Principe, il Signore, etc. come colui che fa il mio bene e per il cui bene sacrifico l’altro, e dunque sempre anche me stesso.
Altro non ammesso, Tertium non datur, anzi, drasticamente soppresso. Nella storia della civiltà gli esempi sono innumerevoli in ogni cultura, l’elenco resta tragicamente immutato nei millenni.
Secondo il principio del terzo escluso, la logica del principio di non contraddizione, amico – nemico, non sono da ritenersi elemento anfibologico, ma rappresentazioni grammaticali dell’altro. Se invece, ammettiamo il terzo, tertium datur amico–nemico, presi in un gioco di relazione potrebbero essere considerati nella loro astrazione modi dell’apertura, che starebbero a indicare l’inconciliabile che riappare in ogni istante. Modo dell’apertura, modo della relazione, ma che non sono mai l’altro che rimane insondabile. Se organizziamo la vita considerando se abbiamo dinanzi l’amico o il nemico, allora organizzeremo tristemente l’esistenza in un programma mortificante, procedendo per eliminazione anziché per integrazione, nella completa sordità anziché nell’ascolto, nell’ostilità e nel conflitto anziché nell’ospitalità e nell’accoglienza.
L’incontro e l’Humanitas
Quando amico e nemico appaiono come due aspetti della personificazione dell’altro, l’incontro si da unicamente nella forma dello scontro, dove l’uno vince sull’altro, in cui l’apertura è negata, il due anziché introdurre la differenza, l’ascolto di altro, proclama il doppio da ricondurre a unità per sacrificio di una componente. Samuel Beckett in Finale di partita, osservando due amanti abbracciati dichiara che a “bene osservarli sono sempre in due”. Originariamente due, la differenza non è toglibile come direbbe Luce Irigaray. Ma questa alterità rispetto a una concezione esclusivamente unificante viene oggettivata per essere immolata, ammette la vittima destinata al sacrificio.
« Confutatis maledictis, flammis acribus addictis, voca me cum benedictis. Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis. »
La vittoria del bene sul male, della redenzione sul peccato, della salvezza sulla perdizione, e in nome di questo perfino il sacrificio della vita di intere generazioni di giovani caduti in guerra.
Victima, quae dextra cecidit victrice, vocatur.
Si chiama vittima quella che cade per mano vittoriosa.
Hostibus a domitis hostia nomen habet.
Prende il nome di ostia dai nemici vinti.
Ante, deos homini quod conciliare valeret…
In principio ciò che bastava a conciliare gli dei all’uomo…(P.Ovidio Nasone)
Il sacrificio come palingenesi. La significabilità delle cose costruita sulla fine del tempo per istituire una nuova genesi. E dunque sacrificio comunitario- deificatorio- funebre- espiatorio- catartico- purificatorio – onorifico- propiziatorio , etc.
L’Apocalisse come rivelazione definitiva e salvifica, la fine del tempo che introduce una felicità piena, in un Altro tempo, altrove. Mai in questo tempo, quello del vivere nell’incontro di noi con gli altri, ammettendo che c’è dell’altro fuori portata e che è ricchezza, poiesis, arte, natura, mare, cielo, terra, aria, vento pioggia… e ancora molto altro, oltre le Colonne d’Ercole. Una concezione questa dell’infelicità terrena a fondamento di un tempo della speranza, fatta di un’attesa nella paura metafisica del giudizio finale che si crede vicino, tanto vicino da essere elemento inserito nel quotidiano, paura della dannazione eterna. Ma in quella paura della dannazione è stata costruita l’intera impalcatura dell’idea della vita terrena come condizione di infernalità, di espiazione e pena cui la dimensione sacrificale permette la conservazione in vita, a costo della ciotola di riso dello schiavo a beneficio del potente di turno; ma non la felicità, se non per un breve, momentaneo istante. Abitudine a una mortificazione costante che addestra all’aggressività circoscritta verso se stessi e gli altri per sfociare, quando fosse necessario in fenomeni di grande mobilitazione alla violenza.
L’incommensurabile rappresentato – in quanto altro- nega l’Humanitas per indifferenza. Nemmeno della nostra condizione chiamata “umana” possiamo avere una cognizione esaustiva: occorre umiltà cui la radice etimologica comune richiama. Non di rado anche nella denuncia del massacro, del genocidio, sempre per mano di altri, a volte non si fa che confermare l’indifferenza in materia di umanità: da una parte, c’è il rifiuto verso il male, dall’altra questo male viene attribuito all’altro, viene posto dinanzi e rappresentato. E l’altro viene rappresentato come carnefice o vittima. Si tratta di andare alla radice delle nostre convinzioni in materia di umanità, più che fare la graduatoria dei peggiori mali. Si tratta di decidere come vivere e non come evitare e sconfiggere il male che a nostra volta inseriamo nella nostra vita, e quindi ce lo ritroviamo messo in scena in ogni circostanza. Nessuno toglie nulla all’Altro. Ciascuno può solo aggiungere, mai togliere. Ciascuno è ospite.
Occorre l’abitudine alla grazia, alla conciliazione, alla solidarietà, all’Humanitas che non abbisogna di comunità di appartenenza.