Tratti/Babele – di Pablo Montoya

Se mi chiedessero, risponderei, indicando verso l’alto: vengo da lì. Sarei incapace di precisare quando ebbe luogo il mio arrivo. La costruzione è cresciuta in modo inverosimile. All’inizio era persino difficile misurarla. Allora la confusione non aveva spazio nelle nostre menti. Neppure la solitudine. Fiumane di uomini provenivano da ogni dove. Come me, avevano avuto notizia dell’edificazione. Forse si rifiutavano di credere, come me, nella possibilità di starci. Come me, abbandonarono i loro alloggi nel deserto, sulle montagne, lungo i ruscelli, nelle zone vicine al mare. All’epoca, ricordo, ci fu un’allegria unanime. Si respirava qualcosa di simile alla speranza. Quel che facevamo avrebbe trasceso la nostra memoria. Vivevamo un’esperienza collettiva dell’orgoglio e volevamo lasciare una traccia di quella grandezza. Io partecipai a tutti gli eventi. I banchetti per celebrare la fine dei livelli costruiti. I giorni di riposo, in cui mi spingevo fino ai settori più elevati o ai confini della città, per vedere la torre. Un giorno si diffuse la voce. Quelli che comandavano erano in conflitto e non concordavano sul modo di abitarla. Patrimonio di tutti, dicevano alcuni: gli uomini possono popolarla liberamente. Altri parlarono di gerarchie sociali e religiose. Per placare l’impeto delle divergenze, si propose di attendere. Mancavano ancora anni per sfiorare le prime nubi. A poco a poco, in ordine o caoticamente, la gente iniziò a occuparne gli sterminati piani. A spingerci tutti era un fantasma, la guerra, un’epidemia, l’amore, l’urgenza di toccare il cielo. Un altro giorno fu impossibile scendere ai livelli inferiori: la distanza era smisurata, e io dovevo attraversare luoghi in cui il furto e l’assassinio erano più di una probabilità. Una volta mi avventurai per certi anfratti e trovai gente ridotta al mutismo. Feci per parlare, ma mi accorsi che lì, sulla torre, nessuno capiva nessuno. Alla fine decisi di rinchiudermi, nascondendomi nella parte più alta. Se mi chiedessero risponderei, le dita intrecciate a una nube, indicando un punto qualsiasi: sì, ho raggiunto il cielo. E vedrei l’eco delle mie parole franare nel vuoto.

 

 

Si me preguntaran, contestaría, señalando hacia la altura: de allá vengo. Sería incapaz de precisar cuándo fue mi llegada. La construcción ha crecido de manera inverosímil. Incluso era difícil medirla al principio. Entonces la confusión no tenía espacio en nuestras mentes. Tampoco la soledad. Muchedumbres provenían de todas partes. Como yo, escucharon noticias de la edificación. Tal vez se negaron a creer, como yo, en la posibilidad de estar en ella. Como yo, dejaron sus viviendas en el desierto, en las montañas, en las riveras, en las zonas próximas al mar. En esa época, recuerdo, hubo una alegría unánime. Se respiraba algo parecido a la esperanza. Lo que hacíamos rebasaría nuestra memoria. Vivíamos una experiencia colectiva del orgullo y queríamos dejar una huella de la grandeza. Participé en todos los eventos. Los festines para celebrar el término de los niveles construidos. Los días de asueto en que subía hasta los compartimentos elevados, o iba a las afueras de la ciudad para ver la torre. Un día se levantó el rumor. Dirigentes de la construcción entraron en conflicto y no conciliaron la manera de habitar la obra. Patrimonio de todos, decían unos, y los hombres pueden poblarla libremente. Otros hablaron de jerarquías sociales y religiosas. Intentando aligerar el ímpetu de los enfrentamientos, se propuso la espera. Aún faltaban años para rozar las primeras nubes. Poco a poco, en orden o caóticamente, la gente se estableció en los innumerables pisos. A todos nos empujaba un fantasma, la guerra, una epidemia, el amor, la premura por tocar el cielo. Otro día fue imposible bajar a los niveles inferiores: la distancia era descomunal, y yo debía atravesar sitios donde el robo y el asesinato eran probables. Una vez me aventuré por ciertos rincones y encontré gentes enmudecidas. Quise hablar, pero comprobé que en la torre nadie comprendía a nadie. Decidí, finalmente, permanecer encerrado y ocultarme en la parte más alta. Si me preguntaran contestaría, mis dedos enredados en una nube, señalando a cualquier lado: sí, he alcanzado el cielo. Y vería el eco de mis palabras caer al vacío.

© Pablo Montoya, traduzione di Ximena Rodriguez Bradford

Pablo Montoya è uno scrittore colombiano ancora sconosciuto al pubblico italiano. Fra le sue opere narrative segnaliamo Lejos de Roma (Alfaguara 2007), El beso de la noche (Panamericana 2010) e Adiós a los próceres (Random House-Mondadori 2010). Il suo racconto L’angelo nero è apparso di recente sulla rivista “Nuova prosa” (n. 56/57, 2011). Nel 2007 ha pubblicato Trazos, raccolta di prose poetiche ispirate ai capolavori dell’arte mondiale, di cui pubblichiamo qui alcuni estratti in anteprima.