Note dall’agendina Mola – di Omar Cerchierini e Thadsanapong Sinsumruai
1. Un tempo sospeso
Avevano deciso di prendersi una vacanza – così si ripetevano – anche se, a dire il vero, si trattava solo di un weekend fuori città. Lui si sentiva stanco, pur non lavorando molto in quel periodo. Della sua stanchezza incolpava soprattutto le sigarette, che fumava in misura di un pacchetto e mezzo al giorno. Mark, invece, stava lavorando tantissimo e non ricordava da quanto tempo non staccasse un po’. Volevano andare sull’isola di Samet, che da Bangkok si poteva raggiungere, con un po’ di fortuna, in due ore d’auto e mezz’ora di traghetto. Decisero di partire all’ultimo momento, il venerdì pomeriggio, correndo il rischio, con il gran traffico del weeekend, di non arrivare in tempo per il traghetto delle sette. Al porto fecero una gran corsa e si imbarcarono nel buio della sera, sotto la luce della luna. Per il nuovo anno Mark gli aveva regalato un taccuino Mola (una marca thailandese), e quando poi furono a letto nel bungalow, che si affacciava sulla spiaggia dalla collinetta punteggiata di palme e noci di cocco, dopo il barbeque di gamberi e granchi e la birra ghiacciata e il sesso e l’ultima sigaretta, lui aveva aperto l’agendina Mola e aveva scritto questi versi:
L’isola
una corsa sul molo
appena in tempo per l’ultima barca
è già buia la sera
la luna sorride bassa nel cielo
con il suo quarto inferiore
che riverbera scaglie di luce
sulle onde tranquille
già si intravede il profilo dell’isola
più scuro sul lontano orizzonte:
siamo ancora, io e te,
in cerca di un approdo.
2. Carte in tavola: è la vita
Il mattino dopo, noleggiato un scooter, avevano raggiunto la baia di Ao Kui Na Nok, a sud dell’isola, per fare colazione. Sedettero a un bar lungo la spiaggia. Lui ordinò un toast e un caffé americano, Mark riso con pollo e basilico. Poi all’improvviso, tutt’attorno cominciò a sollevarsi un po’ d’agitazione. Videro dei ragazzi correre verso la scogliera e poco dopo li videro tornare indietro attorniando e sostenendo l’imponente figura di un farang: un turista straniero. Qualcuno stava riportando la sua canna da pesca, qualcuno le pinne, qualcuno il secchio dove aveva raccolto i pesci, mentre lui, il farang, con la mano destra cercava di tamponare il sangue che colava dal braccio sinistro ferito. Era un americano, in divisa turistica da ordinanza: cappellino da baseball calcato in testa e bermuda combat. Aveva una barba corta e curata e, al collo, gli penzolava una maschera da sub. Fu fatto sedere a un tavolo vicino al loro, mentre i thai del luogo accorrevano con bende bianche e disinfettante. Era un brutto taglio. Disse di essere scivolato sugli scogli. “Stavo tirando fuori un polpo grosso come un caspo di banane! Con le mie stesse mani!” diceva, tra lo scetticismo dei presenti. Ripeteva che non era niente, la sua ferita, ma si trattava di un brutto taglio. Arrivò la moglie in prendisole e cercò di persuaderlo a tornare sulla terraferma e cercare un ospedale. Forse si rendevano necessari dei punti di sutura. Ma lui non sentiva ragioni. Anzi disse, con tono di sfida: “Va bene, a noi! Carte in tavola: è la vita!” Doveva riferirsi al polpo, e alla sfida tra di loro.
“Carte in tavola: è la vita!” ripeté lui a Mark. Mark lo guardò sorridendo, ma non disse niente sull’americano. Lui, invece, aveva già formulato una condanna. Non gli piaceva affatto indentificare il gioco e la vita in quel modo. Non gli apparteva. Giocando si mima la vita, va bene, e la vita si gioca – con le sue regole, il suo divertimento, e le sue sconfitte. Ma chi detta le regole? Ciò che sembrava dominare nelle parole dell’americano era solo il senso di sfida. L’americano contro il polpo di Samet! Lo guardò rimettersi in piedi e allontanarsi lungo la battigia verso gli scogli, la fasciatura improvvisata tutta imbevuta del rosso del sangue. Un gioco?, si chiese. Un gioco può essere ridicolo? Finì il caffé, accese una sigaretta. Poi prese dalla sacca la sua agendina Mola e scrisse: Quando il gioco si fa duro… Sono le regole del gioco… Giocati bene le tue carte! È un gioco spietato! Ma stiamo davvero parlando di un gioco? O non è piuttosto darwinismo da due soldi applicato alla nostra cecità?
3. Un gioco da bambini
Poi nel pomeriggio, mentre Mark dormiva steso su un’amaca tesa tra due palme da cocco, decise di concedersi un massaggio. Steso su una stuoia sotto un banano, un corpulento thailandese, dopo averlo cosparso d’olio aromatico, lo stava stirando secondo i dettami di una tradizione antichissima e a lui sconosciuta. Gli puntava le ginocchia contro la schiena, gli premeva i gomiti lungo la spina dorsale, gli tirava le braccia dietro la testa. Sembrava soprattutto indaffarato a ripristinare le linee dritte – si diceva lui, sdraiato sulla pancia con il thai a cavallo delle anche – ma era impossibile considerare rilassante un massaggio thailandese. Il conforto veniva dalla spiaggia. Il sole si stava allontanando dietro i monti, il vento increspava le onde azzurre. Barche colorate dondolavano lungo il piccolo molo. Vide davanti a sé tre bambini che giocavano sulla riva. Era un gioco calmo e denso di concentrazione. Si giocava senza paletta, senza secchiello, senza niente. Con le sole mani, che prima dovevano scavare e poi appallottolare un pugno di sabbia umida di mare. Infine, le palline di sabbia erano ordinatamente disposte in una lunga fila, a distanza di sicurezza dalle onde. Guardava l’impegno e la serietà che ci mettevano. Il gioco dei bambini non è mai un gioco da bambini! , si ripeteva tra sé, in un facile calembour. L’avrebbe annotato comunque sull’agendina Mola. E poi avrebbe aggiunto: Ognuno dei bambini ha una mansione: e alla fine il risultato – la fila di palline di sabbia – deve essere perfetto. Forse è questo il fine del gioco: essere inutile e perfetto. Gli sembrava la pratica di un insegnamento zen.
4. Giocare con il fuoco
E a sera, il fuoco. I giovani thai quasi nudi, muscolosi e sudati, giocano con il fuoco. I turisti bevono birra e applaudono alle acrobazie. Ondate di calore e zaffate di cherosene li investono.
Loro stanno bevendo rum e coca, seduti sulla sabbia. Di fronte, tre ragazzi thailandesi, di cui uno che, da quando sono seduti, non smette di guardare Mark. Solleva il bicchiere di birra e invita a un bridisi. “Gli altri due al tavolo sono una coppia?” aveva chiesto lui. “Penso di sì. Una coppia e l’amico che si annoia” aveva detto Mark. Al terzo brindisi (cui si erano uniti tutti i componenti dei due tavoli), decisero di spostarsi e sedere assieme, sulla sabbia, al medesimo tavolino. Continuarono a brindare, condivisero un’altra bottiglia di Saeng Som, un rum locale, e ancora coca e secchielli di ghiaccio. E la musica si faceva sempre più alta e i giocolieri mezzi nudi ci davano sotto come matti, per impressionare qualche turista e riuscire nell’impresa di portarsela a letto – magari chiedendole pure una mancia, a fine servizio. Questa cosa lo faceva ridere. Non era geloso delle attenzioni dell’altro ragazzo nei confronti di Mark, anche perché uno dei due thai della coppia aveva cominciato a flirtare con lui in maniera altrettanto evidente, e sotto al naso del suo fidanzato. Verso le due del mattino, quando lui era ormai troppo ubriaco, si cominciò a ballare sui tavoli. I loro nuovi, disinvolti amici tolsero le magliette e a torso nudo salirono sul tavolo, invitando lui e Mark a fare lo stesso. Tutto aveva una temperatura erotica abbastanza febbrile. Se non fosse stato troppo ubriaco, avrebbe scritto sull’agendina Mola: Scherzare con il fuoco: il bello del gioco è scottarsi! Quando il ragazzo che corteggiava Mark alla fine propose con molta naturalezza di ritirarsi tutti nello stesso bungalow, lui offrì ancora un ultimo giro di rum. Mark gli disse: “Sei tremendamente ubriaco!” Lui negò, ma alzandosi in piedi rovesciò il bicchiere colmo che aveva in mano e dovette constatare che faticava a mantenere l’equilibrio. Si aggrappò alla spalla di Mark. “Sto male” disse, mentre cercava di correre a vomitare in mare. Il giorno dopo, con vergogna, si sarebbe ricordato delle due ragazze australiane del bungalow vicino che stavano rientrando con in mano una specie di lanterna di carta di riso e, vedendolo piegato sulle ginocchia davanti alla porta d’ingresso – la testa dentro il cestino dell’immondizia mentre gridava a Mark: “Aiutami! Non lo vedi che sto male? Aiutami!” – si erano offerte, dentro quel cerchio magico di luce rosso-dorata che irradiava dalla fiammella tra le loro mani, di poter fare qualcosa. “Ha solo bevuto un po’ troppo” aveva dovuto rassicurarle il buon Mark, rigraziandole, anche, con un lieve inchino e osservando poi il puntino rosso della loro lanterna allontanarsi nel buio, tra i banani.
5. Commiato
Tentava di attutire i micidiali postumi della sbornia, che gli spaccavano la testa e gli facevano bruciare gli occhi, con un enorme bicchiere di caffé ghiacciato. Mark gli porgeva due pastiglie di paracetamolo, ma per il momento lui, che cercava, dopo il patetico finale di serata, di darsi un tono, le rifiutò. Aspettando la barca, sul molo tra i molti thailandesi che rientravano in città e qualche farang in occhiali da sole e bermuda combat, nel vento salino che gli attraversava i capelli, aveva annotato sull’agendina Mola: Il tempo di una vacanza è il tempo sospeso del gioco. Saremo a Bongkok alle otto. Io e Mark, in cerca di un approdo: la terraferma, altrove. La deriva fa parte del gioco – delle regole che, quando saprò accettarle, forse dischiuderanno il loro significato.
Rilesse le tre righe e, sentendosi stupido, le cancellò immediatamente con un tratto di biro nera. Casa? Scrisse, subito sotto, e richiuse l’agendina.
©Testo di Omar Cerchierini/Immagini di Thadsanapong Sinsumruai