Davide Mosconi, Trittici/ (Frame) all’arbitrio del “caso” – di Gabriele Bonomo
Con i Cinque trittici “In morte del padre” — realizzati nel 1984 su invito di Barbara Hitchcock, curatrice responsabile della collezione Polaroid — Davide Mosconi inaugurò una longeva serie di trittici fotografici, raggruppati con poche eccezioni in cicli tematici omogenei, che si susseguirono senza soluzione di continuità sino all’inizio degli anni 90: dalle successive serie dei Trittici del corpo e dei Trittici delle membra (1986) sino ai Trittici del cielo (Cieli notturni e Cieli diurni, 1990-91), i tre cicli maggiori, attraverso altre serie tematiche minori (Tre Trittici delle ombre, Quattro Trittici del cibo, 1988) e singoli ma non meno rilevanti Trittici “indipendenti”. Chiave di volta della produzione fotografica “autoriale” di Mosconi — contestualmente alla fotografia d’arte egli aveva dato vita allo Studio X, una delle più apprezzate agenzie pubblicitarie attive a Milano specializzate in moda e “still life” —, i Trittici rappresentarono la logica sintesi della sua anteriore ricerca creativa, capace di orientare la poetica e il codice visivo di tutte le sue successive opere. Grazie alla loro originale concezione e alla loro organizzazione seriale, i Trittici consentirono a Mosconi di elevare al massimo grado le due proprietà concettuali ricorrenti che ispirarono a più livelli (sarebbe agevole dimostrare, infatti, come anche la sua attività in ambito musicale sia stata per così dire “eterodiretta” dagli stessi fattori) il proprio afflato creativo: la “coincidenza” e il “caso”, nella loro declinazione ideale — la “sincronicità”. Nei Trittici ciò si obiettiva attraverso la stringente procedura che disciplina il loro peculiare codice figurativo e formale: la lettura “sincronica” di due fotografie preesistenti tra loro irrelate (perlopiù tratte dai repertori iconografici più disparati, dalla fotografia d’autore alle anonime illustrazioni di atlanti scientifici, di medicina o di criminologia) ma che si scoprono affini nella casuale coincidenza del loro sostrato figurativo, alle quali Mosconi associa — dopo averle nuovamente fotografate — una terza fotografia originale che rafforza, amplifica e nel contempo distorce l’universo semantico dell’immagine/archetipo lì catturata (mimesi metalinguistica come metafora dei limiti congeniti all’écriture photographique?). Questo vero e proprio codice o cifrario iconografico, che per Mosconi assumerà sempre un forte valore simbolico, scoprì infine un ideale modello di coniugazione nelle risorse dell’instant photography proprie della Polaroid, il medium indispensabile a cui affidò la realizzazione di tutti i suoi Trittici. L’allora innovativa e rivoluzionaria tecnologia Polaroid, in grado di offrire — ante litteram rispetto all’odierna cultura digitale — uno strumento che consentiva indistintamente a tutti di sperimentare la fotografia “istantanea” (l’uso creativo della Polaroid non fu meno rilevante in termini culturali, a partire dagli anni 60, della sua incidenza sociale), era già stata funzionale a rappresentare per Mosconi un degré zero della scrittura fotografica. In gran parte dei suoi lavori d’autore antecedenti ai Trittici, Mosconi si era rivolto alla Polaroid SX 70 — la sua versione più comune e accessibile — proprio per segnare un cosciente distacco dalla sua attività di fotografo professionale: la mediazione soggettiva era qui subordinata alla cattura dell’istante che il mezzo consentiva, l’asettica meccanica dello scatto fotografico — unico per definizione — oggettivava il limine temporale capace di allineare l’inconscio ottico e l’accettazione del risultato (frame) all’arbitrio del “caso”. Fu, per Mosconi, una vera e propria “rigenerazione” del suo rapporto con la fotografia: «Come una cometa psichica l’animo dell’artista poteva ora attraversare l’istante spinto dall’energia creativa, materializzando lo spirito, spiritualizzando la materia» (D.M.). A queste parole si allinea la definizione che Davide Mosconi avrebbe potuto dare della propria pratica d’arte, o dell’arte tout court, sempre esperita/inseguita nel segno costante di un’attenuazione dell’espressione e dell’intervento soggettivi: depersonalizzazione di una “prassi” quale sola possibile “rivelazione” o “epifania”.
© Archivio Davide Mosconi