BRASILE/Alagados Bahia – di Ivan Dall’Ara

 

Sulla passerella di assi fradice che porta alle palafitte degli Alagados – un cedere improvviso e sei in una poltiglia di fango ed escrementi – il passo vacilla incerto finché rimani straniero.


Qui, l’idea in te di ciò che è buono e bello, non metterebbe mai piede: per avanzare occorre farla cadere.



Cadere di orpelli, sgretolarsi di cataratte: guardare il volto del povero è farsi spogliare. Per-Altro sei desiderato. Affacciarsi al di là, perdersi in ciò che scorre all’aperto. Non puoi conservare nulla. Il tuo prima è, dopo, un’accozzaglia di souvenir. L’attimo in cui gli oggetti si rovesciano di significato.



Poco più là, il tuo zaino basta a riempire l’intera baracca in cui vive una famiglia di cinque persone. Il rigagnolo di fango che scorre in mezzo alla stanza è una cloaca: senti scuotere nella carne tutto quanto in te vorrebbe ribellarsi e rifuggire l’attimo in cui ti accorgi.


Che la tua presenza qui è preziosa. Che la donna raggomitolata al suolo ti sorride, illuminando un pertugio in quell’ammasso di stracci.



In mezzo alla discarica, sul rudere sudicio di un sofà, un padre insegna al figlio a fare i compiti di scuola per il giorno dopo.
E un filo con pochi brandelli di carta si libra nell’aria. Pare impossibile che possa volare, tant’è minuscolo, improbabile.
Ma quell’aquilone si eleva nell’aria come incollato ad un cielo di cartapesta. Il tuo occhio rimane incantato.
Anni, occorrono, per vedere.


Tre ragazze ti indicano ballando, cantano Voĉe è lindo.


Oltremisura. Il bello indecifrabile.